Corriere dello Sport

RICETTA CASARIN «ESPELLEREI CHI È CONTRO IL VAR»

Arbitri e dirigenti incerti L’ex designator­e all’attacco «La tecnologia è necessaria Gli organismi internazio­nali devono avere la forza di imporla Ma per vederla usata al meglio bisognerà aspettare i giovani»

- Di Marco Evangelist­i

Paolo Casarin, quando abbiamo cominciato a perdere la testa tra arbitri e Var? «Trent’anni fa».

La prendiamo un po’ alla larga. «Nel 1990 è stato avviato un percorso, sensato, che ha portato inevitabil­mente all’uso della tecnologia. Abbiamo cominciato a impostare le regole con uno scopo preciso: fare in modo che si segnassero più gol. Il risultato perfetto, storicamen­te, è sempre stato considerat­o il 2-1. Quello che teneva gli spettatori lì a guardare. Se andiamo ancora indietro nel tempo, tre gol a partita riempivano gli stadi britannici, che molto rapidament­e erano arrivati a contenere ottantamil­a persone. Magari operai del settore tessile che così non andavano a spaccare vetri nei bar di Manchester. Di colpo, nel 1990 ci si è resi conto di due cose: Europa e Sudamerica non erano più gli unici centri del calcio internazio­nale e la media di gol del Mondiale italiano era stata di 2,1 a gara. Mancava un 30% di emozioni. E allora che cosa andavi a vendere in Corea o in Giappone? Le modifiche alle regole, a cui io stesso ho contribuit­o, sono state scritte con uno scopo preciso: aumentare il numero di reti. Contestual­mente, ci si è resi conto che il calcio si espandeva in Paesi dove non si accettava l’idea che il risultato venisse deciso da errori arbitrali. Mettiamoci anche la visibilità sempre maggiore in Tv: l’arbitro poteva tornare a casa soddisfatt­o della sua prova e poi scoprire che aveva sbagliato tutto. Già con l’epoca dei Pelé, dei Maradona, dei Cruijff ci eravamo convinti che il bello di questo sport stesse tutto nei giocatori. Improvvisa­mente gli arbitri da mostri di bravura diventavan­o mostri e basta».

Ecco che ci avviciniam­o al Var. «Già. Passando pure per gli assistenti specializz­ati che hanno preso il posto degli arbitri improvvisa­ti guardaline­e. E così via. Il passaggio alla tecnologia è venuto naturale».

Allora dov’è la crepa?

«Nel fatto che naturale non significa spontaneo o condiviso. Il calcio non ha mai avuto, qualsiasi cosa si creda in merito, un ministro con pieni poteri che sceglie per tutti. La sua evoluzione è sempre il risultato del lavoro e della passione di molte persone e di diversi gruppi. Nel caso del Var, e pure del controllo della linea del gol, abbiamo assistito e stiamo assistendo tuttora a un contrasto di fondo tra chi è favorevole e chi è contrario. Per esempio Blatter era determinat­o ad andare avanti con prudenza mentre Platini si opponeva. L’attuale presidente della Fifa, Gianni Infantino, ha deciso di prendere la strada della tecnologia con decisione, ma l’Internatio­nal Board, che custodisce le regole, condivide quell’orientamen­to? Francament­e non si capisce».

Sul Corriere della Sera lei ha criticato l’atteggiame­nto di Giacomelli e Banti che non hanno utilizzato a dovere il Var in occasione del rigore non concesso al Napoli contro l’Atalanta.

«E confermo quella posizione. Mi è difficile comprender­e come gli arbitri non sfruttino uno strumento così potente per minimizzar­e gli errori. Minimizzar­li, non eliminarli. Stia pur tranquillo che se in una partita si fischiano trenta falli è già molto azzeccarne dieci. Ma la questione arbitrale discende da un problema più ampio. Dirigenzia­le, culturale. Sono i vertici del calcio, devo supporre, a non essere convinti del Var».

Lo suppone o ne è certo?

«E’ arrivato il momento dell’onestà intellettu­ale. O si decide che il Var e la tecnologia in generale non c’interessan­o oppure si dice chiaro e tondo: la strada è questa, chi non è d’accordo si accomodi fuori degli organismi internazio­nali».

Dal punto di vista politico, un’utopia.

«Io parlo da appassiona­to di calcio che s’innamora del gioco ogni giorno di più. E anche da esperto, visto che me ne occupo da sessantadu­e anni. Bisogna capire che questo tipo di riforme si fanno per tutelare il calcio e il suo futuro. Non è accettabil­e che dopo tre stagioni tutto ciò che siamo stati capaci di partorire sia un protocollo. Ovvio che in questa situazione gli arbitri non sappiano che cosa fare o vadano ognuno per conto proprio. Il Var deve entrare nel regolament­o, essere codificato da norme e dare certezze a chi è chiamato a usarlo. Poi vediamo se uno come il tedesco Brych rifiuta nuovamente di ricorrere alla tecnologia, al Mondiale come in campionato. Capisco il rodaggio, perfetto il periodo di prova, però a un certo punto bisogna scegliersi un punto d’arrivo».

L’Internatio­nal Board, o Ifab che dir si voglia, non è mai stato un modello di elasticità. «Conservato­re per tanti anni, ed è comprensib­ile. Del resto gli inglesi saranno gli ultimi ad adeguarsi anche quando il Var diventerà adulto e maturo. Poi improvvisa­mente ecco che l’Ifab decide di eliminare il concetto di volontarie­tà sul fallo di mano. Ma come si può concepire una baggianata simile? Pensiamo forse di insegnare ai bambini a giocare con le mani dietro la schiena, perdendo tra l’altro anche un quarto di

prestazion­e atletica? Io giocherò come accidenti mi pare e spetterà all’arbitro valutare se ho voluto fare il furbo. Logico che i direttori di gara non riescano ad adeguarsi».

Perché introdurre questa trovata giuridica, se è così balzana? «Sempre per aumentare il numero dei gol, in questo caso attraverso la moltiplica­zione dei rigori. In Italia sono più del triplo dello scorso anno. Quando dirigevo ne fischiavam­o cinquanta all’anno, ora siamo a centoventi. Ancora: c’è la pretesa di codificare ogni sanzione disciplina­re, come se questo garantisse la certezza del diritto. Al contrario, oggi volano i cartellini mentre tra di noi vecchi arbitri c’era la gara a finire una partita senza ammonire nessuno. E si mostrano il giallo e il rosso agli allenatori non appena qualcuno mette la punta della scarpa taglia quarantaci­nque fuori della sua zona. Che senso ha? Agnolin a chi si alzava dalla panchina faceva segno di allacciars­i la cintura. Oggi si sentono tutti attori eppure ci si può esibire soltanto come previsto dalla liturgia».

Casarin, secondo lei la tecnologia è proprio necessaria?

«Sì. Nel calcio bisogna guardare avanti con un orizzonte di un decennio almeno. Com’è stato fatto per il numero dei gol. Siamo sicuri che di qui a qualche stagione avremo abbastanza arbitri per coprire il calcio mondiale in espansione sempre più rapida? La tecnologia fornisce strumenti per affrontare anche eventuali emergenze di questo tipo. L’importante è che la valutazion­e dell’arbitro resti centrale, che non ci si trasformi in robot».

Tuttavia anche su episodi che sembrano chiari, vedi Napoli, non tutti sono d’accordo. I vertici dell’organizzaz­ione arbitrale hanno difeso Giacomelli e Banti. «Io non contesto nessuno. Penso che per vedere il Var utilizzato come si deve bisognerà attendere la prossima generazion­e di arbitri».

Un sistema di challenge con il quale gli allenatori possano chiedere l’intervento del Var un certo numero di volte aiuterebbe? «Mi sembra uno sviluppo ineluttabi­le. Anche rendere pubblici i dialoghi tra arbitro e addetto al Var sarebbe utile. Nessuno potrebbe più lasciarsi prendere dall’allergia al monitor. Meglio divulgarli dopo la partita che durante. Pensi quanto sarebbero divertenti le trasmissio­ni sportive».

Nell’attesa, che facciamo? «Usiamo il Var così com’è, senza nasconderc­i dietro il protocollo. Una volta l’arbitro dopo aver sbagliato poteva buttare lì: che cosa pretendete da me, sono da solo. Ora è da solo chi vuole esserlo».

«Il challenge degli allenatori sarà uno sviluppo naturale E alla fine delle partite renderei pubblici i dialoghi tra ufficiali di gara»

«Come si può pensare di abolire il concetto di volontarie­tà sui falli di mano? L’unico scopo è moltiplica­re il numero dei rigori»

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ANSA Un arbitro (Fabrizio Pasqua, 36 anni) impegnato al monitor durante una partita di Serie A
 ??  ?? Paolo Casarin in campo con Diego Armando Maradona: è il 1984
Paolo Casarin in campo con Diego Armando Maradona: è il 1984
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LAPRESSE Paolo Casarin, 79 anni

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