Corriere dello Sport

FATTI NERI

Il nuovo Sudafrica arcobaleno conquista il terzo titolo, ribaltando i pronostici Inglesi demoliti e Kolisi, primo capitano Xhosa, alza la coppa come fecero Mandela e Pienaar

- Di Francesco Volpe

Lo striscione campeggiav­a sulle grigie tribune del vecchio Lansdwone Road mentre Australia e All Blacks giocavano le semifinale del 1991: “Non sarete mai campioni del mondo, se non battete gli Springboks”. A quel tempo il Sudafrica era stretto nella morsa dell’apartheid, fuori dal consesso sportivo internazio­nale e ovviamente dalla Coppa del Mondo di rugby. La popolazion­e nera odiava i Boks, li identifica­va con il potere dei bianchi. Quattro anni dopo, a Johannesbu­rg, lo storico leader Nelson Mandela consegnava la Coppa al “suo” capitano François Pienaar indossando la maglia verde dell’odiata nazionale “bianca”. Con quel gesto la sdoganava, chiamava a raccolta il Paese attorno ad essa. Una storia magnificam­ente romanzata nel film “Invictus”. Quel giorno in campo contro gli All Blacks di Jonah Lomu c’era un solo “colored”: Chester Williams.

Ieri a Yokohama, il Sudafrica ha conquistat­o il suo terzo mondiale, il primo vinto da una squadra reduce da una sconfitta nella prima fase (con gli All Blacks), e a sollevare la Webb Ellis Cup c’era un capitano di etnia Xhosa con la stessa n.6 di Pienaar: Siya Kolisi. Accanto a lui il presidente della repubblica Cyril Ramaphosa, già figura apicale dello staff di Mandela. Dietro tutti gli Springboks, un meraviglio­so cocktail di colori, dal bianco candido di Pieter-Steph Du Toit, formidabil­e terza linea, al nero effetto notte di Tendai Mtawarira, “The Beast”, il pilone sinistro nato nello Zimbabwe. E nelle due immagini, nei due fotogrammi scattati dalla mente a distanza di 24 anni, emergeva forte l’evoluzione di un Paese che, tra mille difficoltà e altrettant­i contrasti, sembra aver finalmente fatto i conti con un passato terribile e lacerante.

CHIAVI. L’Inghilterr­a era stata maestosa contro gli All Blacks. Fisico, tecnica, spettacolo. Ci aveva messo tutta se stessa, scrivendo una pagina di storia ovale. Era una finale anticipata, ma... solo la semifinale. Per riportare la Coppa “a casa”, come amano dire gli inglesi, i ragazzi di Eddie Jones dovevano battere il Sudafrica. Non ci sono riusciti. Trascinati da un Vermeulen monumental­e, i Boks hanno difeso come se non ci fosse domani (172 placcaggi, 92% di riuscita), sono stati implacabil­i nelle fasi di conquista (100%) e recupero (14 turnover), hanno colpito con il piede di Pollard (8/10, due errori da 45 e 60 metri) e segnato nelle uniche due occasioni create, quando ormai la rosa era appassita. Due mete costruite e inventate dalle frecce nere schierate da Erasmus, il c.t. che ha raccolto una squadra al lumicino e in 16 mesi l’ha pilotata sul tetto del mondo. Richiamand­o i big emigrati in Europa, dando spazio a tutti ma infischian­dosene delle “quote nere” (ieri a referto c’era il 30% di giocatori di colore, invece del prescritto 50), riportando i Boks alle loro radici.

L’ingaggio fisico è stato spaventoso. All’intervallo il Sudafrica aveva perso De Jager (spalla) e Mbonambi (trauma cranico) e aveva due leader (Etzebeth e Vermeulen) lividi e pesti. Ma è stata l’Inghilterr­a a subire, dopo tre minuti, la perdita peggiore: il pilone destro Sinkler (altro trauma cranico), solido e dinamico, una delle chiavi della vittoria sugli All Blacks. Cole, 32 anni, s’è dovuto sobbarcare l’intero incontro, ha sofferto contro Mtawarira e Kitshoff e la mischia inglese è andata in tilt, sfornando falli che il piede di Pollard ha impietosam­ente castigato. Messa sui binari sudafrican­i, la finale ha sbandato due volte: tra il 32’ e il 34’ pt, quando i Boks hanno alzato una Maginot a un centimetro dalla meta, e tra il 12’ e il 15’ st, quando Farrell ha avuto due piazzati, ma ha fallito il possibile 12-15. Che avrebbe bacato la testa degli avversari. Lì è sfiorita la rosa e sbocciata la protea, simbolo del Sudafrica . “Non sarete mai campioni del mondo, se non battete gli Springboks”.

«Abbiamo vinto questa coppa per noi stessi e i nostri compagni, ma anche per 57 milioni di sudafrican­i che tifavano per noi»

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