Mapimpi, l’uomo-meta è più veloce del dolore
Una vita segnata dai lutti e una straordinaria capacità di essere decisivo: suo ieri il colpo del ko
La Rainbow Nation da Pienaar a Kolisi L’evoluzione del Sudafrica attraverso i trionfi iridati dei suoi Springboks. Dall’alto, la stretta di mano tra Nelson Mandela e il capitano François Pienaar (1995) e lo storico leader omaggiato dall’allora capitano Jon Smit (2007). A sinistra, ieri, Siya Kolisi alza la Coppa con il presidente Cyril Ramaphosa
Cogli la prima meta, entra nella storia, perché forse qualcuno lassù ti ama. E’ quello che ha fatto Makazole Mapimpi, e alzi la mano chi qualche anno fa avrebbe mai immaginato che il primo Springbok a segnare una meta in una finale mondiale sarebbe stato un nero. E pure il secondo, visto che a tagliare definitivamente le gambe (anzi il gambo) alla Rosa è stato Cheslin Kolbe, con uno slalom indiavolato fra i paletti bianchi. Ma riavvolgiamo il nastro. Minuto 66: Marx passa al centro Am che lo gira al volo a Mapimpi. Uno sguardo fulmineo, un calcetto beffardo. La palla rimbalza di nuovo in mano ad Am, poi l’ultimo passaggio, facile facile, per il numero 11 in jersey verde. Che, quasi stupito, si guarda intorno e appoggia la sua sesta meta del Mondiale. In Giappone solo il gallese Adams ha fatto meglio di lui (7), mentre in patria il ragazzo di Mdantsane se la batte con il mito Habana: 14 mete in 14 test, contro le 15 in 14 per l’Uomo che Sfidava i Ghepardi.
E dire che quando è arrivata la chiamata dagli Springboks (2018) Mapimpi era stato tentato di rifiutarla. «Dovevo migliorare nel gioco aereo e in difesa. Mi sentivo stanco, non al meglio, fu una sorpresa». Rifiutato a 19 anni dal Border, è costretto a un anno di purgatorio prima di iniziare la scalata verso il trionfo di ieri. Purtroppo con un velo di tristezza. A 29 anni Mapimpi ha già perso la madre, una sorella e un fratello, morto per le conseguenze di una scarica elettrica della polizia dopo un furtarello. «Non penso che mia madre sarebbe venuta allo stadio, si era sempre opposta alla mia carriera. Quando vedo i compagni che festeggiano con i loro cari, mi pesa. Poi penso che il dolore mi ha reso più forte, e che forse Dio aveva un piano per me nel rugby».