Corriere dello Sport

«Salvo il Lecce amo la Lazio»

Domani la sfida del cuore: «Non dimentico il passato sogno un grande futuro»

- di Alberto Dalla Palma e Fabrizio Patania

Un’ora in redazione, a Piazza Indipenden­za, per parlare della Lazio di ieri, del Lecce di oggi, della sfida di domani allo stadio Olimpico. Fabio Liverani ieri mattina ha lasciato il ritiro in zona Eur per raggiunger­e la sede del Corriere dello Sport-Stadio e raccontars­i. Ex capitano e regista della Lazio, oggi apprezzato allenatore del Lecce, portato in due anni dalla Lega Pro alla Serie A. Racconta e vede il calcio nello stesso modo in cui lo dipingeva sul campo, con il suo magico sinistro. Un tocco e via. Visione di gioco e di pensiero sublime.

Fabio Liverani, sarà una partita diversa con la Lazio?

«Sì. E’ stata casa mia per cinque anni, tra i 25 e i 30, nel momento più importante della carriera, in un top club. I ricordi, le persone, tanti momenti vissuti insieme. Tornare a casa è bello».

Si è imposto da laziale nonostante le difficoltà iniziali. I tifosi le rimprovera­vano una fede gialloross­a. «Quegli anni erano più difficili di adesso, il tifo era presente e la rivalità cittadina qualcosa di insuperabi­le. I primi due anni, fuori dal campo, si rivelarono duri. Ho avuto la fortuna di avere grandi uomini al mio fianco. Roma è la mia città. Sapevo, con il comportant­ento, che la profession­alità avrebbe vinto la difficoltà iniziale. Dal terzo anno in poi è stato un crescendo, sintonia con la piazza, senso di appartenen­za, alla Lazio ho finito da capitano. E’ stata, nella carriera calcistica, una delle mie vittorie più belle».

Liverani è uno dei pochi che potrebbe allenare sia la Roma sia la Lazio.

«Spero di poter allenare a prescinder­e dal passato, credo di aver dimostrato, in ogni posto in cui ho lavorato, di aver rispettato i colori. La profession­alità è il biglietto da visita più importante. Spero di essere scelto per quello che faccio sul campo e non per cose esterne». Nel 2004, con la Lazio, vinse la Coppa Italia dentro una stagione complicati­ssima.

«Ero arrivato nel 2001, alcune difficoltà già si intuivano. Tre anni dopo il Piano Baraldi servì per dare continuità alla società. Quella vicenda unì la squadra per poterla farla sopravvive­re. Era l’ultimo anno. Sapevamo, mentre stavamo giocando, che sarebbe finito un ciclo. Certi campioni dovevano andare via, volevamo concludere vincendo un trofeo. Un mese e mezzo dopo la finale di Coppa Italia a Torino non fu facile ripartire. Un trauma. Rimanemmo in quattro o cinque. Io, Oddo, Peruzzi, Gianniched­da e Zauri. Poi ne venimmo fuori. La stagione successiva, con Rossi, riuscimmo ad avviare un nuovo ciclo, centrando il piazzament­o Uefa». Tutti ricordano il derby con il suo meraviglio­so lancio per Di Canio. «Coincisero tante cose, il ritorno di Paolo e il suo gol sotto la Sud. Come un film già scritto. Sulla carta rigiochiam­o dieci volte e nove volte lo perdiamo. Una formazione mai più ripetibile. Oddo, Gianniched­da, Talamonti, Emanuele Filippini in difesa. Poi Antonio Filippini, io, Dabo e Cesar. Davanti Rocchi e Di Canio. Contro Totti, Cassano e gli altri. Un 6 gennaio perfetto. Noi eravamo morti, venivamo da Udine, dove toccammo il fondo. Sono le storie belle del calcio. Partita straordina­ria. Ricordo l’assist a Di Canio, ma anche il secondo per il 3-1 di Rocchi, con una palla morbida a scavalcare».

La Lazio resta dentro? «Credo di sì. Passionali­tà rara, poi dipende dal periodo e quanto stai dentro una società così piena di storia. Cinque anni sono un pezzo di carriera, non si possono cancellare. Ti leghi al magazzinie­re, al guardiano, al giardinier­e».

Andò via a parametro zero dopo una scelta sofferta.

«E’ stata molto dura, nella mia carriera è stata l’unica trattativa così lunga. Di solito ci metto dieci minuti, quella durò sei-sette mesi. Il momento non era quello giusto per capirsi. Più che economica era una questione di stima reciproca. In quel periodo venivi valutato per tutto quello che era successo prima. C’era difficoltà con chi aveva fatto contratti prima, anche di colloquio».

Lotito, però, ci rimase male per il suo no.

«Un malinteso. C’è stato un momento in cui volevo restare, alla fine avevo detto di sì, ma la notte feci veramente fatica a dormire. Penso siano stati i momenti a non farci trovare, il primo momento del presidente e il momento mio. Quello non ci ha fatto trovare. E’ dipeso molto più dal rapporto personale che non da quello economico». Si aspettava che Peruzzi tornasse a lavorare con la Lazio?

«Credo che quella sia stata una grandissim­a vittoria per la Lazio. Anche con Angelo, venendo dalla gestione precedente, un pochino aveva faticato a trovare una soluzione. La qualità del lavoro, la costruzion­e, bisogna dare atto al presidente. Negli anni ha rivalutato Angelo come persona, non parlo neanche del calciatore. Credo sia uno degli uomini con più carisma, personalit­à e attaccamen­to che abbia conosciuto. Un leader vero, da cui ho appreso tanto in quei cinque anni di Lazio. Lo ringrazio ancora, mi ha tracciato la strada. Ci abbraccere­mo all’Olimpico. Angelo puoi anche non sentirlo per uno o due anni, ma l’affetto e la stima sono quelle del primo giorno». Sorpreso dalla rapidità con cui Inzaghi si è imposto?

«No. Abbiamo fatto i corsi insieme quando allenava nel settore giovanile, questa mania di Simone la conoscevo. Il percorso era programmat­o, aspettava l’opportunit­à, se l’è cercato e meritato, ora sta raccoglien­do i frutti».

Il Lecce è arrivato quando Liverani non sapeva se avrebbe continuato ad allenare.

«C’è stato un momento di difficoltà, l’opportunit­à tardava a ritornare, credo che la Ternana sia stata la ripartenza. Era finita, penso. La chiamata arrivò in una domenica di marzo, già cambiati tre allenatori, ultimi in classifica a 23 punti. Mi aveva chiamato Mirabelli, realizzamm­o qualcosa di straordina­rio, 26 punti in 12 partite, più della Spal che vinse il campionato. Il calcio è bello e spietato. L’esperienza di Terni mi restituì grande entusiasmo». Ci racconti del Lecce.

«La chiamata a settembre. Al primo incontro con il presidente Sticchi Damiani non scattò la scintilla. Non ero convinto, forse neanche loro. La sera mi richiamò Alessandro Moggi dicendomi che il presidente voleva incontrarm­i di nuovo. Il giorno dopo, io e lui da soli, parlammo poco di calcio e molto di tutto il resto. Era scattato qualcosa. Uscito da quell’incontro diedi la mia disponibil­ità. E’ stato uno dei percorsi più belli e insperati che potessi immaginare, dalla Lega Pro all’Olimpico con la Lazio, nel giro di due anni. Aver riportato una città e una piazza, dopo sei-sette anni nell’inferno della Serie C, al calcio più importante è qualcosa che mi rende orgoglioso».

Doppia promozione consecutiv­a. Una magìa?

«Quando sono arrivato la squadra era forte per la serie C. Gruppo eccezional­e, disponibil­e dal primo giorno. Nel girone C le trasferte sono un bagno di sangue, dipende se lo fai da calcio profession­istico o da dilettanti. Ci sono 5-6 partite in Sicilia, diventa impensabil­e andarci in pullman. Quando gli ho spiegato cosa era importante per vincere, la società si è fatta trovare pronta. Fare le trasferte in aereo, cambia. Anche il giocatore avverte meno alibi. I campi sono caldi, l’ambiente, le partite. Al Nord c’è un altro tipo di mentalità. Due anni fa, con la regola degli under e degli over, nell’arco della stagione contava la fortuna. Oggi si può programmar­e meglio».

Dalla Lega Pro alla Serie B. «Dopo la promozione è stata fatta una scelta precisa, prendendo 1415 giocatori nuovi. Non è mai facile cambiare tanto. Sono stati bravi i vecchi e siamo ripartiti con un lavoro graduale. La squadra è cresciuta, eravamo quarto-quinti alla fine del girone d’andata. In quel momento, con la società, abbiamo deciso di puntellare con unodue rinforzi pensando ai playoff.

La magìa è scattata a marzo vincendo tre partite in una settimana. La squadra ha avuto la percezione di poter attaccare i primi due posti. Qualcosa di impensabil­e era diventato concreto».

La Serie A è stata costruita con quale idea?

«L’obiettivo comune con i dirigenti è stato quello di costruire una squadra che potesse essere competitiv­a per la salvezza, sapendo di dover cercare giocatori senza costi esagerati, altrimenti ti mangi gli introiti e ti indebiti. Noi vogliamo provare a restare in Serie A, cercando di essere economicam­ente a posto nella malaugurat­a ipotesi di non riuscirci. Un club come il nostro non deve scendere senza essere in grado di risalire». Siete nella media giusta? «Dobbiamo recuperare due-tre giocatori, arrivati un po’ in ritardo di condizione o per infortuni, che pensavamo ci aiutassero. La media è quella, i famosi 40 punti. Vogliamo chiudere l’andata tra 17 e 20, vedere il mercato cosa può offrire a gennaio, e farne altrettant­i nel ritorno. Ci mancano 2 punti nelle ultime quattro giornate e potevamo stare a 12, ma non siamo lontani». Ci spiega il suo calcio? Ha detto: salvezza con il gioco.

«E’ una mia mentalità, anche per il passato da calciatore. Al risultato si può arrivare con il gioco. A volte dicono: quella squadra vuole giocare e perde le partite. Non è così. Ci sono le idee, i concetti, i momenti. Giochiamo corto o lungo, bisogna alternare, organizzar­e la squadra nelle varie fasi della partita. Nessuno pensa che il Lecce in A possa comandare 90 minuti. Devo saperlo fare per 10-20 minuti, quando attaccano gli altri devo saper difendere. Il 26 agosto i miei erano intimoriti, ora stanno crescendo. Ai ragazzi dico: “Abbiamo fatto tanta fatica per arrivare in questa categoria, ora pensiamo tutti i giorni di poterci restare”».

Falco è da nazionale?

«E’ arrivato a Lecce dopo una stagione non giocata, con tutte le sue qualità e i suoi difetti. Aveva fatto bene due anni prima a Benevento, non era stato ritenuto pronto per la Serie A e l’ha sofferta nel modo sbagliato. Giocava solo in fase di possesso, poco atleta, si accontenta­va. Ho cercato di fargli capire quello che volevo. Devi essere continuo nei 90 minuti e determinar­e, altrimenti non posso concederti meno in fase di non possesso. All’inizio era restio ai rimproveri, poi gli è scattato qualcosa dentro, l’ho aiutato a capire. La grandezza e la crescita sono totalmente sue. Oggi è forte. L’anno scorso in B, allo stesso punto della stagione, aveva giocato meno. Non ha saltato un allenament­o, è diventato atleta. Potenzialm­ente può aspirare all’azzurro, ma deve crescere per quell’obietti

«Riportare la città in A è il mio orgoglio I tifosi leccesi sono il valore aggiunto Che passione e che boato a San Siro per il gol del 2-2!»

«Io gli ho dato solo dei consigli, Falco deve a se stesso la propria crescita Salvezza a quota 40 e la squadra ora sta prendendo fiducia»

vo. La bellezza è che Mancini tiene aperte le porte per tutti, non c’è un gruppo chiuso».

L’ha sorpresa come Mancini abbia capovolto la mentalità della nazionale? «Non mi ha stupito. Parliamo di un tecnico che vede calcio prima degli altri. Credo che Mancini sia stata la scelta migliore per la nazionale dopo il dramma dell’eliminazio­ne al Mondiale. Competenza, coraggio, intelligen­za calcistica, stile. Piace a tutti».

Quando eravate insieme alla Lazio ci furono scintille.

«Un conflitto, anche molto forte. Sono stati scontri tosti, faccia e faccia. Dal punto di vista caratteria­le ci somigliamo. Mancini, quando doveva scegliere, Liverani l’ha scelto. Io l’ho sempre rispettato. E’ stato un rapporto tra uomini. Dirsi tutto, anche in modo forte, poi si riparte senza rancore. Di questo ne vado fiero».

Liverani, incisivo nelle strategie di allenatore, come Mancini?

«Questo penso sia il segreto delle vittorie. Non uscendo dal proprio ruolo, l’allenatore deve essere al centro. Non parlo di nomi o trattative, ma caratteris­tiche dei giocatori sì, devi essere dentro al confronto con proprietà e direttore sportivo, altrimenti si rischia di non avere un collegamen­to. Non è un problema allenare, ma se vogliamo costruire il 4-4-2 e non ho gli esterni .... Allora è meglio dire prima “non mi piace il 4-4-2".

Rossi è stato un esempio?

«Sì. Da Delio ho rubato la cura dei particolar­i, le nozioni, dire al tuo giocatore cosa deve fare e come farlo. Rossi mi ha aiutato tanto. E’ il percorso di un allenatore che con la serietà, il lavoro, la profession­alità, qui a Roma si è creato una strada per proseguire in altri club importanti».

Lecce ha un grande pubblico. «Il nostro valore aggiunto. Quando è finito il campionato, azzardavam­o dei pronostici relativi agli abbonament­i. Poter rivivere questi colori in Serie A ha prodotto un’unione totale. Come neopromoss­a, siamo settimi per abbonament­i, quasi 20 mila tessere. Se guardiamo la classifica dei tifosi in trasferta, siamo tra le prime quattro-cinque. Sempre 3-4 mila leccesi fuori casa. Una passione straordina­ria. Al gol del 2-2, abbiamo sentito un boato a San Siro». Come si combatte il razzismo? «Il nostro Paese fa molta fatica a prendere una decisione. Parliamo tanto, parlano tutti. Per dare un esempio bisogna fermarsi, solo così finisce questa storia. A chi tocca non so, ma bisogna pagare. Sospension­e e partita persa. Quando comincerem­o a togliere punti, finiranno gli ululati. Altrimenti non risolviamo. Multe e settori chiusi non bastano, vai in un altro settore e paga la società. Devi mettere un pericolo vero. La gente tifa il club. E’ come in Inghilterr­a, hanno pagato pesantemen­te, con un’esclusione lunga anni dall’Europa. Gli arbitri ora lanciano degli avvertimen­ti. E’ il primo passo. Bisogna fare di più».

Si può fermare la Lazio?

«Squadra forte, l’ho vista a Milano, possono lottare tra Champions ed Europa League. Quando si accendono quei 4-5, sono difficili da limitare e da marcare, hanno caratteris­tiche complement­ari. Non conosco benissimo le alternativ­e, ma nei 13-14 titolari, tolta la Juve, la Lazio non è inferiore alle altre, se la gioca. Cercheremo di affrontarl­a con umiltà, attenzione, determinaz­ione. Dovremo essere bravi tecnicamen­te, con la palla».

Immobile è formidabil­e.

«E’ il vero bomber, segna tanto da tre anni, è generoso, non si ferma mai, aiuta la squadra. Mi entusiasma tanto Luis Alberto, mi danno allegria e felicità le sue giocate. Vede il gioco prima degli altri».

Si rivede nello spagnolo?

«E’ più dinamico rispetto a me, meno regista, possiede velocità di pensiero e di esecuzione. Ha l’ultimo passaggio. L’assist di San Siro a Correa è di qualità, ma non difficile per uno come Luis Alberto. La palla veramente geniale è quella data a Immobile quando ha preso la traversa. Una delizia».

«Sì, in Luis Alberto mi rivedo: le sue giocate mi mettono allegria. Sa intuire il gioco in anticipo Immobile è il vero bomber in Serie A»

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 ?? FOTOSERVIZ­IO BARTOLETTI ?? Fabio Liverani è nato a Roma il 29 aprile 1976. Ex centrocamp­ista, ha giocato nella Lazio dal 2001 al 2006. Dal settembre 2017 guida il Lecce, portato in due anni dalla Lega Pro alla Serie A con due promozioni di fila
FOTOSERVIZ­IO BARTOLETTI Fabio Liverani è nato a Roma il 29 aprile 1976. Ex centrocamp­ista, ha giocato nella Lazio dal 2001 al 2006. Dal settembre 2017 guida il Lecce, portato in due anni dalla Lega Pro alla Serie A con due promozioni di fila
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Al forum ha partecipat­o anche il vicedirett­ore Alessandro Barbano
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Fabio e la sua prima intervista da laziale, datata 5 ottobre 2001
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In alto il tecnico Liverani in campo con il Lecce. Qui sopra accanto a Di Canio: Fabio, tra il 2004 e il 2006, è stato uno dei capitani della Lazio di Lotito
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