«VENITE NEL MIO CALCIO SENZA BUU»
«Amo le curve, ma a chi offende con gli ululati dico di visitare certe realtà: da fame e sofferenza emergono valori e non differenze»
La sua Africa è un percorso lungo seimila chilometri, da Brazzaville a Dakar, dal Congo al Senegal, passando per il Mali, il Burkina Faso, il Benin. E poi la Nigeria, il Camerun, la Guinea Equatoriale, il Gabon. Paolo Berrettini è diventato un ambasciatore italiano in Africa attraverso il mestiere che fa da sempre, quello dell’allenatore. È uno degli ultimi vincitori azzurri (le Universiadi nel ’97 in Sicilia, l’Europeo Under 19 nel 2003 in Liechtenstein). La prima volta, era il 2006, è arrivato in Senegal, per guidare da coordinatore il De Camberene, squadra di Serie B di cui portò la giovanile per più di una edizione al Torneo di Viareggio. La scintilla però scoccò lì. Quello che poi diventa mal d’Africa - così lo chiamano - e che è «incredibilmente vero». Quei pochi viaggi da Parigi a Dakar piantarono un seme. Nel 2014 ecco la pianta: la proposta della Repubblica del Congo per diventare responsabile delle nazionali Under 20 e Under 17 con un contratto triennale. E da lì, chiusa quella avventura, l’Accademia Baobab, di nuovo a Dakar, di nuovo Senegal, affiancato da Renato Scarpellino, preparatore con compito di assistente a 360 gradi. Ma quello che arriva in Senegal è ormai Paolo Berrettini l’Africano...
Perché l’Africa?
«Perché lavorandoci da tanti anni ho riconosciuto una luce negli occhi dei ragazzi, quella voglia di strada che lì è una necessità e in Italia non c’è più. Ai nostri giovani a volte basta mettere una maglia blasonata per sentirsi arrivati. In Africa il calcio è fame e sentimento. E io credo in una cosa da sempre: tecnica e tattica sì, certo, ma la crescita evolutiva te la garantiscono la grinta, la determinazione, la costanza. Devi avere fame, per allenare queste qualità. In Africa la fame dilaga fino alla disperazione. Ma tutto questo lo sanno trasformare in un sorriso, sempre. E nello sport diventa talento puro».
Ci racconta il Congo? «Avventura splendida, toccante, vissuta grazie al ministro dello Sport che mi volle lì. Ero appena arrivato, dovevo capire ancora tutto dell’Africa: mi danno una casa che si affaccia sul fiume Congo che è un... mare: infinito. Non ci sono settori giovanili e soprattutto per la Under 17 dovevo andare setacciando villaggio per villaggio e constatando povertà, situazioni al limite della sopravvivenza che ti segnano».
I villaggi, un mondo particolarissimo...
«Mi fermavo a parlare con la gente, i bambini piccoli vedevano i palloni e volevano palleggiare: una umanità che ti prende il cuore, questi viaggi diventavano percorsi interminabili. E i pulmini pieni zeppi dei ragazzi che chiamavamo, indimenticabili. In Africa sai quando parti, ma non sai quando torni, certe trasferte con le mie nazionali duravano 10 giorni per intercettare i voli di ritorno. Abbiamo disputato le fasi finali di 4 Coppe d’Africa, un traguardo che a loro mancava. Con le Nazionali, l’Africa l’ho vista tutta: credetemi che ci sono spaccati di Burkina Faso, Niger, che ti prendono lo stomaco. Ma è quella l’Africa: e nonostante la fame, non ti chiede, ti dà».
Torniamo in Italia: sta seguendo quello che avviene con i buu razzisti, la vicenda che ha coinvolto Balotelli. Lei che vive l’Africa, cosa pensa di tutto questo?
«Io amo le curve italiane per il colore e la passione con cui accendono gli stadi. I buu sono un’altra cosa, becera. A chi fa queste sciocchezze consiglierei di venire qui, farsi un giro, guardare la disperazione e la fame negli occhi della gente. E capire come tutto questo possa trasformarsi in ricchezza dell’anima e in talento sportivo. Come ha detto Sarri, la razza è una, quella umana: sottoscrivo».
E ora il Senegal, Dakar.
«Dakar è favolosa, una città tranquilla, amano gli italiani, parlano italiano. E amano il loro Paese. L’impiantistica è davvero scarna, ma tu nella strada dall’aeroporto alla città, ti giri a destra e sinistra e vedi ragazzini giocare a pallone. Ovunque: sulla terra, sulla sabbia».
Come nasce l’ Accademia Baobab? «Il ministro del Commercio mi conosceva e mi ha chiamato lì, voleva che ci fosse una struttura di riferimento per fare calcio, mi piace ancora addestrare il talento. E qui ce ne è tanto. Sto parlando con il Siviglia e sono stato da Monchi che mi ha ospitato con grande cortesia. Poi Atletico Madrid, Nizza. Verrò in Italia dove Walter Sabatini e il network Bologna-Montreal Impact possono essere interlocutori interessanti. Già qualcosa abbiamo fatto: Diallo, portiere del 2002, andrà al Nizza, in Spagna stanno osservando Babakar Ka, mediano del 2001, e l’esterno d’attacco del 2002 Dabo. È la mia Africa, ho dato e sto avendo tanto».
Rewind, il nastro torna indietro e attraversa i ricordi. Due vittorie in Italia: le Universiadi del ’97 e l’Europeo Under 19, successo rimasto isolato. Due ricordi?
(sorride) «Delle Universiadi le sigarette che fumai, credo di aver superato il maestro Zeman. Degli Europei la finale e la scelta di cambiare modulo passando dal 3-5-2 al 4-42 con Chiellini alto a sinistra: se andavo male mi avrebbero crocifisso. Ora è arrivato Gravina in Figc, lo conosco da anni e sono convinto che farà un gran bel lavoro. I frutti si inizieranno a vedere presto».
«Ora sono a Dakar: è favolosa, la gente ama gli italiani
E su terra e sabbia vedi ovunque ragazzini che giocano a calcio»
«Mi piace educare il talento, qui ce n’è molto. Io spesso mi sono ritrovato l’unico bianco tra i neri: ho sempre ricevuto rispetto»
L’Africa le ha trasmesso tanto, si sente.
«L’Africa insegna guardandola. Sono stato dentro stadi dove ero l’unico con un colore della pelle diverso da tutti gli altri, giocatori, arbitri, dirigenti, pubblico. Giuro, mai sentito qualcosa che potesse somigliare al disagio. Ho vinto e ho perso, sono stato circondato da rispetto e applausi».