Corriere dello Sport

PANCOTTO: IL GRANDE ERRORE NEGLI ANNI 90

Il veterano delle panchine, oggi a Cantù, è nel basket da quattro decadi «Credevamo che il boom economico non sarebbe finito: ci sbagliavam­o»

- Di Fabrizio Fabbri

Non è il decano degli allenatori della A: è nato l’8 gennaio 1955 mentre Meo Sacchetti il 20 agosto 1953. Ma avendo iniziato nel 1982, Cesare Pancotto, oggi tencico di Cantù, non sfugge al ruolo di grande saggio.

Pancotto, in che modo tutto ha avuto inizio?

«Da viceallena­tore a Porto San Giorgio, la mia città. Con cinque partite da giocare in C venni promosso. Le vinsi tutte e siamo saliti in B. Portai entusiasmo ma nessuna esperienza. Aiutai la squadra ad aiutarmi».

Lei è stato un buon playmaker. Conferma?

«Costruivo per gli altri. Ero veloce, con un buon uno contro uno. In difesa tosto, concentrat­o sull’obiettivo. Mi affidavano l’avversario più pericoloso».

Dopo tanti anni si riconosce nella pallacanes­tro attuale?

«Il tempo mi ha permesso di migliorare come coach ma soprattutt­o uomo. Il basket di oggi mi piace. Ho iniziato in uno sport che era molto tecnico ma si capiva che sarebbe andato alla ricerca di fisicità ed atletismo. Ho voglia di guardare avanti, sono attratto dalla curiosità di scoprire. Bisogna migliorars­i per correre dietro al mondo, non deve essere il mondo a muoversi attorno a te». Di vedersi in poltrona a guardare il basket in tv proprio non ci pensa? «Amo questo mestiere e mi ritengo fortunato. Finché avrò passione, entusiasmo, energia e voglia di dedicarmi agli altri non mi fermerò».

Proviamo a fare una panoramica sulla sua carriera. Cosa ricorda della pallacanes­tro degli anni 80? «La voglia di far diventare il nostro sport nazionale, coinvolgen­do piazze del centro e del sud. I club avevano un tesoro inestimabi­le: il settore giovanile su cui investivan­o perché tutelati dal cartellino. Arrivavano giocatori stranieri di alto livello e la NBA e i top club europei erano di meno. L'Italia era una meta ambita». Negli anni 90 invece ci si è fatti travolgere dal boom economico? «C’è stato un momento di grande entusiasmo, forti investimen­ti e si guardava al futuro. Ci fu una iniezione di grandi somme di diritti televisivi; insomma, si pensava in grande grazie alla presenza di proprietar­i come Scavolini, Maggiò, Snaidero. L’errore fu pensare che tutto sarebbe proseguito».

Lei allenò la Mens Sana Siena. Fu uno degli apripista per i grandi successi?

«Quando fui ingaggiato, nel 1993, il Monte dei Paschi ancora non era presente ma Ferdinando Minucci già pensava allo scudetto. Il mio compito fu riportare Siena in A. Il club divenne simbolo della città quanto Piazza del Campo». In quella squadra ha allenato lo straniero più forte mai avuto a disposizio­ne?

«Darren Daye rimane un pezzo unico, una sintesi del giocatore ideale che poteva fare tutto. Aveva anche una dote innata: intercetta­va il momento decisivo della partita. Ricordo un episodio in A2. Giocavamo a Padova e se avessimo vinto e Torino, impegnata a Fabriano, avesse perso, saremmo stati promossi in A. A tre minuti dalla fine eravamo sotto e arrivò la notizia del successo dei marchigian­i. Darren lo capì e giocò quattro palloni decisivi, ribaltando la gara».

Il ricordo di Daye conferma che lei è il decano dei coach. Ora suo avversario è il figlio Austin. Che effetto le fa?

«Il tempo passa inesorabil­mente. Domenica scorsa abbiamo affrontato Roma con Amar Alibegovic. Io ho avuto l’onore di avere papà Teo con me. E’ fantastico esserci e vedere i figli dei miei giocatori protagonis­ti».

Il presente è Cantù: un’altra bella scommessa, non crede?

«C’è tradizione, entusiasmo, voglia di crescere. Le cose che piacciono a me. In questo turno giochiamo a Pistoia una gara difficile». Cosa sarebbe oggi Pancotto senza il basket?

«Non mi sono posto la domanda perché ho investito nella pallacanes­tro. Sono ad un esame dalla laurea in architettu­ra e mi spiace non aver ultimato il ciclo per i miei genitori, ma ho avuto il coraggio di scegliere la via che mi piaceva. Volevo costruire qualcosa di solido e confortevo­le per la mia famiglia, come fa un buon architetto quando pensa ad una casa. Ora faccio l’allenatore in futuro magari...il coach».

«Ho allenato l’asso Daye e Alibegovic, e adesso mi ritrovo contro i loro figli!»

«Mi manca un solo esame per diventare architetto. Coach per costruire il futuro»

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CIAMILLO Cesare Pancotto, 64 anni, oggi coach di Cantù

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