Come fosse casa sua
Quando anche il sopracciglio sinistro, andandosene per dove sa, ha disegnato un arco (della felicità?), il linguaggio del corpo ha trascinato Carlo Ancelotti in quella sua nuova dimensione e l’ha risistemato al centro del football. Dev’essere stata la magìa della Premier, quella fascinosa atmosfera anti-stress, a tirar fuori, ad appena 17 giorni dall’esonero di Napoli, la maschera naturale e accattivante di un uomo che ha riscoperto in fretta d’essere (sempre) padrone di se stesso, del proprio codice sentimentale, di un’autorevolezza che si percepisce ad occhio nudo, semplicemente osservandone la postura o cogliendo tutto ciò che quelle smorfie e l’espressione trasmettono.
Sua Maestà s’è intrufolato in un Mondo che gli sta addosso elegantemente nella sua sfarzosa perfezione, ha provveduto a spargere sull‘Everton la raffigurante figura d’un leader nato e s’è incamminato con fierezza, lasciandosi alle spalle quelle tracce di veleno italiano, strappandogli il sorriso dalle vene. Ancelotti s’è ritrovato dal vuoto nel quale era piombato, nella notte tra il 10 e l’11 dicembre, a quest’ubriacatura di serenità che dimostra l’inesattezza assoluta del calcio, la sua precarietà, la capacità di demolire e poi ricostruire in fretta, prim’ancora che si riuscisse anche a lasciar germogliare l’idea di provarci, le forme fatte e finite di un totem vivente. Ancelotti non è un rimpianto, le “tavole” del football non rientrano tra i comandamenti, e pure Re Carlo è consapevole che a volte persino un rimbalzo, uno solo, può costringere a modificare il destino, prendendo in contropiede la Storia. Però la fisiognomica del calcio resta lì, come un messaggio subliminale da cogliere (e inviato semmai anche a Klopp: chissà che faccia mai farà, nel ritrovarselo di fronte, il 5 gennaio, in Fa Cup, sapendo che non c’è segreto da riuscire a tener nascosto in un pallone!).