La Roma che sa soffrire
È perfettamente in carattere con la storia spirituale della Roma vedere uno come Robin Olsen diventare un vendicativo Batman, presenza ossessiva dalle ali ampie e buie che coprono l’intero spazio della porta rendendolo angusto come il foro di una cintura. E va bene che di questi tempi i pipistrelli non godono di buona stampa. La rivincita di Olsen non si è consumata appena per un modesto gol, poco al confronto della differenza tra la Roma di ieri e il Cagliari di ieri che poi è lo stesso Cagliari degli ultimi tre mesi, quello incapace di vincere da dicembre dopo aver saccheggiato in barba a qualsiasi vigilante la prima parte del campionato.
Dice Maran che la classifica consente ancora ai suoi di sentirsi intoccabili e di giocare con leggerezza d’animo. Probabile sia vero, ma questi periodi di spensieratezza non durano a lungo. La Roma a sua volta lo sa perfettamente e fa quanto può per divincolarsi dal groviglio di pensieri sul presente e sul futuro, sul bilancio economico che pare un buco nero in espansione, sulla distanza tra le idee originali di Fonseca e la poca e maledetta pratica quotidiana del campo. Eppure sembra proprio che la squadra trovi lì, in quel cuore di tenebra, la fonte di energia. Ha preso coscienza di non poter essere l’Atalanta, dalla quale la separano qualche chilo di muscoli e diversi barili di fiato più che la qualità assoluta dei singoli. Si è rassegnata a sudare su ogni punto, a temere ogni spigolo di ogni partita e a guardare a ogni turno come a un’avventura in luoghi incerti.
Le va meglio quando si sente in mezzo alla giungla che quando s’illude di essere al sicuro. Nell’ansia rintraccia dentro di sé le risorse migliori, quelle che sembravano perdute. Da Mkhitaryan, del quale s’intuisce la statura internazionale anche solo a vederlo muoversi con passo da pantofola, a Kalinic, di cui è ormai enciclopedico il curriculum contro il Cagliari. E ci aggiungeremmo anche Ünder, in apparenza capace di trarre frutto in fase difensiva dalle lavate di capelli inflittegli da Fonseca. Ma se ci fermiamo ai primi due viene meglio l’ironico confronto tra il mercato di Petrachi, destinato peraltro a una severa scrollata sotto il nuovo ciclone in arrivo dal Texas, e le scelte suggestive e sconclusionate del prossimo avversario Monchi, simboleggiate dal Robin che da giallorosso non volava mai. Serve giusto a farsi due sorrisi in momenti cupi. Questa Roma che cresce e spera è solo all’inizio. Ha bisogno di ben altro se vuole tornare a essere com’è oggi l’Atalanta, che gioca con la luce negli occhi. E da lì, con il nome che porta, guardare oltre.