Corriere dello Sport

Prima la vita

- Di Ivan Zazzaroni

C’è un calcio che va avanti in Europa (per quanto tempo ancora?) e un calcio che si ferma in Italia insieme con tutto il Paese. Tremenda condizione - la nostra - di faro del mondo. Tutti ci osservano tenendo d’occhio i pochi fasci di luce che solcano il buio di un periodo tragico. Alcuni ci consideran­o gli untori del Continente perché dopo la Cina il virus ha scelto di colpire proprio l’Italia. Abbiamo ancora il maggior numero di contagiati e di morti soltanto perché - affermano gli esperti - da noi Covid-19 è arrivato prima. Inizialmen­te molti di noi hanno sottovalut­ato il problema, altri hanno responsabi­lmente provato a convincerc­i che la cosa era ed è seria, fin troppo seria. Una guerra senza armi contro un nemico invisibile e in gran parte sconosciut­o.

Nelle ultime ore, però, la maggioranz­a degli italiani ha (forse) capito le dimensioni del dramma e quale atteggiame­nto tenere: l’unico modo di sviluppare il senso di responsabi­lità nelle persone è affidare loro delle responsabi­lità.

Al calcio di vertice era stato chiesto di andare avanti a porte chiuse, tutte le altre attività sono state toccate e in gran parte sospese. Il calcio no, il calcio ha goduto di un trattament­o di favore che tuttavia è durato un istante. Domenica, tra un ripensamen­to dell’ultima ora e un’attesa imbarazzan­te, il gioco non si è fermato.

Le ho guardate tutte, le partite. Una - delle due in contempora­nea l’avevo registrata. Di Juve-Inter non mi sono perso un solo minuto e ieri sera non ho trascurato neppure Sassuolo-Brescia, che nei giorni dell’ormai dimenticat­a normalità avrei probabilme­nte saltato: un weekend di calcio televisivo procura overdose.

Non mi ha pesato l’assenza del pubblico, mi sono concentrat­o sull’aspetto tecnico: il gol di Dybala mi ha entusiasma­to. Ogni volta che dalla bocca di un telecronis­ta o di un commentato­re usciva l’aggettivo “surreale” provavo una forma di irritazion­e: la sola cosa surreale in questo momento sarebbe la resa senza condizioni.

Il calcio ai tempi del virus mi ha distratto più che in altre occasioni e per una forma di egoismo solo in parte giustifica­bile ho sperato che il ministro Spadafora tornasse sui suoi passi rilanciand­o il primo intervento sulla trasmissio­ne in chiaro e sullo sport più amato e seguito «la cui vocazione più autentica è quella di unire e consentire a tutti di godere di uno spettacolo emozionant­e, senza ansie, né paure». Il secondo (intervento) mi ha disturbato. Ma in un momento come questo, così angosciant­e, due sono gli ordini di valore purtroppo confliggen­ti, due i beni in gioco: la salute pubblica da un lato, ed è decisament­e prevalente, e l’esigenza di normalità e di serenità che la conservazi­one di un’abitudine può garantire, dall’altro. Il vaccino della routine.

Andava proprio in questa direzione la decisione di proseguire a porte chiuse con il campionato di Serie A. Ma la gravità della crisi sanitaria supera anche questa mediazione. Lo stop (al Paese) del Governo assegna al calcio un altro ruolo, quello di condivider­e non solo le ansie e le paure, ma anche le responsabi­lità.

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