Corriere dello Sport

Quando sono i campioni a fare gruppo con noi

I campioni fuori dagli stadi trascinano le comunità Da Klopp ai calciatori del Napoli per sentirsi umani

- di Arsenio Pallavicin­i

«È una cosa molto seria interporre le barriere del tempo e dello spazio tra i membri della famiglia umana, dopo che sono state rimosse»: lo diceva circa un secolo fa un eminente studioso di diritto internazio­nale, George Grafton Wilson, in un momento di strabilian­te espansione del commercio mondiale: epoca dei primi transatlan­tici, del telegrafo e degli aeroplani.

Le distanze sociali imposte dalle norme sanitarie non frenano la voglia nelle città e fra la gente di tornare ad abbracciar­si I protagonis­ti dello sport fuori dalle loro sfide interpreta­no e guidano questo sentimento

«È una cosa molto seria interporre le barriere del tempo e dello spazio tra i membri della famiglia umana, dopo che sono state rimosse»: lo diceva circa un secolo fa un eminente studioso di diritto internazio­nale, George Grafton Wilson, in un momento di strabilian­te espansione del commercio mondiale: epoca dei primi transatlan­tici, del telegrafo e degli aeroplani. Ci vedeva giusto: quando quel ciclo di globalizza­zione dell’economia si interruppe, fu la Grande Guerra.

In una misura più contenuta – e, si spera, con esiti meno catastrofi­ci – vale anche oggi. Anzi, vale sempre: tutte le volte in cui cambia il nostro rapporto con il tempo e con lo spazio, cambiamo noi pure. Lo ripeteva Wilson, giurista americano: Guai a far nascere barriere fra le persone

Vale naturalmen­te anche per i grandi campioni dello sport. Che hanno però un vantaggio rispetto a noi comuni mortali (a parte i comfort delle loro ampie dimore): sono psicologic­amente più preparati, perché conoscono, insieme all’erba del campo o all’asfalto della pista, anche le lunghe sedute in palestra, i ritiri, le preparazio­ni invernali o gli infiniti pomeriggi trascorsi a nuotare in vasca, da soli.

Vi è una dimensione dello sport per cui esso è anzitutto una sfida con se stessi, anche quando è uno sport di squadra.

In questi giorni, però, sta accadendo anche un fatto nuovo: sono loro, i campioni, a fare squadra con noi, non noi con loro. È Klopp, l’allenatore del Liverpool, che scrive ai tifosi e canta per loro «You’ll never walk alone», non cammineret­e mai da soli. È il Parma che affida a un suo giocatore, Scozzarell­a, la lettura via social di una favola per bambini, per fare compagnia ai più piccoli. Ed è infine il Napoli che organizza un flash mob per cantare tutti insieme «Un giorno all’improvviso», come sotto una curva che abbraccia idealmente i balconi e le finestre di tutta la città.

La quarantena interpone barriere tra i membri della famiglia umana, per dirla ancora con G. G. Wilson. La famiglia umana, però, sa inventarsi i modi per superare quelle barriere. Se c’è una cosa che abbiamo imparato dagli studi antropolog­ici su quello strano animale che è l’uomo, è che fa sport anzitutto per fare festa. E fa festa perché ha bisogno di riti comunitari, di momenti di condivisio­ne e identifica­zione collettiva. Fa sport per vincere, per segnare un record, per allenare il corpo e la mente. Ma lo fa anche per ritrovarsi insieme agli altri, per rinsaldare legami, per tener vivo il senso di appartenen­za. Così, se non possiamo più andare allo stadio, è ben possibile che i simboli di quella festa che è la partita di calcio entrino nelle nostre case: le canzoni, le bandiere, la lettera del Mister o le parole del Capitano. Com’era quella storia di Maometto e della montagna? Ecco: uguale. La montagna è lo stadio, e non possiamo andarci; Maometto siamo noi, e lo stadio, il calore e i riti della curva ci arrivano, grazie a una lettera sul giornale, a un flash mob, a un messaggio via social.

Poi verrà il turno di sociologi, psicologi e filosofi che ci spiegheran­no come sia in pericolo la socialità umana, perché non è la stessa cosa stringere una mano o salutarsi coi gomiti, fare lezione da casa oppure in aula, e filar via al supermerca­to scambiando solo mezza parola con la cassiera, al riparo di una mascherina. Uscite fuggevoli, solo strettamen­te ne

cessarie, spazi ristretti, e tutto il resto online. Però l’uomo inventa, e come se inventa. E tutti noi ci inventiamo quotidiana­mente un altro modo di stare insieme, di ridere o di festeggiar­e. In attesa di tornare a bordo campo.

E ognuno di noi ritroverà sempre un modo per stare vicino all’altro

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Tutti alle finestre ieri per applaudire infermieri e medici che lavorano per curare i malati dall’epidemia
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Gli abbracci ideali da finestre e balconi nonostante il distanziam­ento sociale
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