«LA MIA GUARIGIONE? BELLA COME UN GOL»
Il collega spagnolo ci racconta la sua personale battaglia contro il Coronavirus: si era infettato a Milano durante la gara di Champions Atalanta-Valencia Ora che ha vinto può festeggiare alzando le braccia al cielo Kike Mateu: «Alla notizia che ero guari
Quando è stato dimesso dall’ospedale, dopo un mese di ricovero, ha paragonato la sua gioia a quella provata al minuto 116’ dell’11 luglio 2010. Per la Spagna un attimo scolpito nell’eternità, per Kike Mateu, giornalista valenciano a beccarsi per primo nella sua città il maledetto coronavirus, una gioia indescrivibile, come quella del gol di Iniesta nella finale di Coppa del Mondo in Sudafrica contro l’Olanda. Il contagio avvenuto a Milano il 19 febbraio, quando era al seguito del Valencia a San Siro per l’andata degli ottavi di Champions League contro l’Atalanta. Una settimana dopo ecco i primi sintomi: tosse, febbre, difficoltà respiratorie, poi la triste conferma: positivo al Covid-19, uno dei primi casi in Spagna, che ad oggi conta 8.189 morti e 94.417 contagi. Un dramma personale che però Kike ha vissuto sempre con ottimismo, con il sorriso, con la capacità di saper raccontare, con un linguaggio semplice e chiaro a tutti, la malattia dal suo letto d’ospedale. Lo ha fatto quotidianamente tramite il suo profilo Twitter, un bollettino medico praticamente in tempo reale dalla sua degenza, nonostante momenti di sconforto che non sono mancati. Lontano dalla sua redazione, quella del quotidiano Las Provincias, lontano da sua moglie e da ciò che più ama: il calcio. Perché mentre lui era già ricoverato in ospedale il Valencia continuava a giocare in campionato e in Champions, con il ritorno contro l’Atalanta a Mestalla senza pubblico e quel poker di Ilicic visto solo in televisione. Lui che quelle partite è abituato a commentarle in diretta per una radio locale. Sofferenza nella sofferenza. Perché il calvario di Kike Mateu, 44 anni, ma uno spirito da diciottenne, non è durato poco. Ora però il calvario è finito e va festeggiato come il gol di Iniesta, come un momento di gioia eterna, un attimo in cui ti viene “la piel de gallina”, i brividi, la pelle d’oca per l’emozione. Come una vittoria del Mondiale, perché il calcio si sarà pure fermato e non sappiamo quando riprenderà, ma resta parte integrante della vita di tutti. In Spagna, come in Italia, i due paesi europei più colpiti dalla pandemia del coronavirus.
Ce l’ha fatta, Kike. La sua vittoria andava celebrata a dovere. Come il gol di Iniesta. «Quando il medico è entrato nella mia stanza d’ospedale e mi ha detto “ho buone notizie per te” ho subito pensato a quel gol che ci ha regalato il nostro primo Mondiale. Ho provato una emozione grande quanto quella vissuta nel 2010. Da 22 anni, in radio, racconto ogni partita del Valencia. Quell’attimo, come la Coppa del Re dell’anno scorso vinta in finale contro il Barça, sono due dei momenti più emozionanti che ho vissuto nell’ultimo decennio da tifoso e giornalista. La gioia è stata praticamente la stessa».
Torniamo indietro, a quella sciagurata trasferta di Milano. E non parlo dal punto di vista sportivo, che immagino sia passato in secondo piano.
«Ho fatto la vita di qualsiasi giornalista al seguito di una partita di Champions League all’estero. Eravamo in 50-60 da Valencia, poteva succedere a me come a chiunque altro, colleghi e no. Durante la partita eravamo in mixed zone, ma nella zona riservata ai giornalisti spagnoli, ma non c’era un grande assembramento di persone. Credo però che il contagio sia avvenuto nella metropolitana di Milano. Avevo lasciato l’auto a San Siro per andare a Piazza Duomo per fare alcune dirette per tv e radio. Lì c’erano tutti i tifosi del Valencia che si radunavano prima della partita. Poi sono tornato a San Siro in metro. Direi che è successo lì, ne sono sicuro. E’ stato l’unico momento in cui sono stato circondato da tantissime persone e ormai sappiamo tutti in che modo viaggi il virus».
Poi è tornato a Valencia e dopo qualche giorno ha accusato i primi sintomi.
«Qui sono stato il paziente zero, il primo caso in città, di sicuro il primo giornalista con il coronavirus in Spagna. Solo dopo si è saputo dei contagi di Gayà, Garay e Mangala, oltre agli altri membri dello staff del Valencia che erano presenti anche al ritorno a Mestalla. Io nel frattempo ho passato 24 giorni in ospedale, praticamente fino al 22 marzo. Poi, quando sono stato dimesso, ho trascorso altri 7 giorni in isolamento domiciliario, meno male che c’era mia moglie a darmi una mano: non la vedevo da un mese. Ho potuto riabbracciarla, ma dopo tre ore di abbracci continui mi ha chiesto di smetterla. Non ne poteva più. Lunedì invece sono uscito per la prima volta di casa e sono andato a lavoro. Mancavo in redazione da 31 giorni ed è stato strano, per strada non c’era nessuno, né macchine né persone, una città fantasma, sembrava un film. So che sono immagini che a voi ormai sembrano tristemente familiari, ma per me non lo erano: non vedevo il mondo reale da più di un mese e ritrovarlo così mi ha fatto un certo effetto».
Quando vede la situazione a Madrid, le foto dei padiglioni dell’Ifema allestiti a mo’ di ospedali di guerra, che effetto le fa? «Tristezza e rabbia, quando vedo le immagini degli ospedali al collasso mi viene in mente che il giorno prima che qui chiudessero le scuole e le università, il Governo autorizzò e appoggiò pubblicamente la manifestazio