Il coronavirus ha ucciso Ceruti il presidente dell’epopea Pantani
mondiale per la Lotta al doping dell’UCI, nonché Consigliere nazionale dell’Istituto del credito sportivo.
Ha guidato la Federazione in anni gloriosi ma anche molto difficili per il ciclismo, per quello italiano in particolare. Basti ricordare che era presidente da un anno quando Marco Pantani fece la doppietta Giro-Tour (1998), da due quando il campione romagnolo fu fermato a Madonna di Campiglio per l’ematocrito fuori norma. I loro contrasti furono memorabili. Venti giorni dopo Madonna di Campiglio, Pantani lo aveva chiamato a casa sua a Cesenatico, Ceruti c’era andato, avevano parlato per più di tre ore. «Alla fine avevo capito che non c’era niente da fare».
SUI LIBRI. Ceruti aveva una curiosità fuori dal comune, sapeva intrattenere una platea per ore, in privato era bello sentirgli raccontare delle lotte operaie, di quel mondo che avrebbe sempre voluto cambiare. Non aveva paura di sbagliare, semplicemente perché non aveva paura. Dopo aver lasciato la Federazione, seguiva il ciclismo con passione ma da lontano, «prima il telefono suonava ogni minuto, dopo quasi mai, all’inizio è dura da accettare».
Negli ultimi anni aveva scritto un libro, «Il ciclismo dalla Sicilia alla Toscana», in cui aveva analizzato dal punto di vista etnografico e antropologico il fenomeno dei corridori costretti a spostarsi per correre dalla Sicilia
alla Toscana - uno su tutti: Vincenzo Nibali - e le conseguenze sulle loro famiglie. Si era soprattutto dedicato a tutto quello che non aveva avuto il tempo di fare prima, negli anni caldi delle lotte sindacali e poi in quelli altrettanto bollenti in cui era rimasto ai vertici del ciclismo: andava in bicicletta tutti i giorni, nuotava, e aveva studiato tanto, arrivando a laurearsi addirittura tre volte. In Filosofia, Antropologia e Scienze politiche. Non aveva avuto problemi a tornare sui banchi assieme a ragazzi appena usciti dalle superiori: la curiosità era più forte di tutto.