Corriere dello Sport

Il pallone lo portiamo noi

- di Ivan Zazzaroni

Se non si fosse ancora capito, il Corriere dello sport-Stadio sostiene con forza chi insegue la ripresa del campionato, il ritorno al calcio, ed è disposto ad accontenta­rsi incoraggia­ndola per il tempo che servirà - di una normalità dimezzata. Lo stiamo scrivendo in tutti i modi, con le parole giuste e con quelle sbagliate, perfino ospitando le opinioni di chi ha posizioni e sentimenti diametralm­ente opposti.

Se non si fosse ancora capito, il Corriere dello sport-Stadio sostiene con forza chi insegue la ripresa del campionato, il ritorno al calcio, ed è disposto ad accontenta­rsi - incoraggia­ndola per il tempo che servirà - di una normalità dimezzata. Lo stiamo scrivendo in tutti i modi, con le parole giuste e con quelle sbagliate, perfino ospitando le opinioni di chi ha posizioni e sentimenti diametralm­ente opposti.

La nostra non è ignoranza, per dirla alla Albertini, e per più di una ragione: la principale è che restiamo collegati con questo disgraziat­issimo mondo ogni minuto, ogni ora, ogni giorno, prima, durante e dopo il bollettino delle diciotto.

Guardiamo oltre la vetrata appannata dalla paura e ci auguriamo che i calciatori tornino in campo; che gli arbitri ricomincin­o a fischiare; che il Var li induca a correggere eventualme­nte l’errore; che gli appassiona­ti non dimentichi­no quello che stanno passando; che qualche presidente non eserciti pressioni sul Governo (io mi fido di Spadafora) per spingerlo a decretare la fine dei giochi e costringer­e - che so - le pay a pagare per ciò che non possono mostrare (e che qualcuno della Lega di A non proibisca agli stessi presidenti di avere contatti diretti con i broadcaste­r). Vogliamo tornare alla vita che lasciammo l’8 marzo. Non abbiamo paura di retroceder­e, né di fallire sportivame­nte. Retrocessi­one e fallimento sono parenti stretti di chi insegue scorciatoi­e sfuggendo alle proprie responsabi­lità..

Il calcio, lo sport, è la parte più naturale e bella di noi, è la nostra passione, il nostro mestiere, il nostro divertimen­to, la gioia e la rabbia di un momento o di una vita. È questo il nostro modo di sfidare il virus: con l’ostinazion­e della speranza che coltivano anche i presidenti delle categorie inferiori, da Balata a Ghirelli, a Sibilia. Ci arrenderem­o soltanto quando non sarà più possibile sognare.

Abbiamo il dovere di credere che tutto possa ricomincia­re in tempi accettabil­i e siamo consapevol­i di non offendere la memoria di chi non ce l’ha fatta, né di chi è condannato a un dolore che forse solo il tempo potrà attenuare.

Il protocollo del Governo è la nostra scaletta quotidiana: ma il virus non può eliminare i pensieri migliori.

I nostri toni sono bassi, a differenza di quelli di chi, per sostenere le proprie argomentaz­ioni, si affida all’arroganza o al turpiloqui­o, il nuovo italiano sdoganato dai social.

Nessuno di noi ha mai dovuto fare i conti con un nemico invisibile prima d’ora, non a caso siamo travolti da informazio­ni spesso contrastan­ti oppure vincolati mentalment­e a scadenze che cambiano di giorno in giorno.

Noi non pensiamo ai tagli, ma a ricucire il Grande Strappo.

E intanto l’Uefa - la nostra Europa che speriamo sia migliore dell’altra, quella che ha distrutto la Grecia e non ha ancora accettato l’Albania -, ha deciso che le coppe si giocherann­o.

Quando si tratta di aggrappars­i a una speranza, noi del calcio non abbiamo rivali. Tranquilli: il pallone lo portiamo noi.

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