«Ora Messi»
Il successo dell’Olimpico per il condottiero del Napoli vale molto più del primo trofeo messo nella sua bacheca di allenatore Una vittoria di peso che premia una svolta Non più solamente Rino né il proverbiale Ringhio ma un leader capace di imporsi con le
Il presidente punta il Barçellona «Sogno di andare a Lisbona Gattuso è speciale, io ho fiuto»
Sembra Mosé mentre separa le acque, però mai mischiare il sacro con il profano: e in quella notte emotivamente «tempestosa» e in un cielo apparentemente azzurro, c’è un uomo solo al comando di se stesso e dell’universo che lo circonda. «Zitti, zitti .... Ora cantatemi un giorno all’improvviso». Il Gattuso semi-evangelico che irrompe sulle scalinate della stazione di Afragola, manco fosse sul Sinai, dinnanzi a millecinquecento tifosi che l’aspettano per celebrarlo con il suo Napoli, è l’immagine della redenzione d’una squadra, della resurrezione di una città, che a un certo punto, mentre sta per piombare all’Inferno, scopre che in realtà le buone intenzioni lastricano le vie del Paradiso. Ci sono voluti 169 giorni per appropriarsi d’un Mondo, per sistemare la testa fuori dagli equivoci, per lasciarsi anche alle spalle le rovine psicologiche d’una serata pallida e surreale, quella del 5 novembre, in cui il Napoli si ritrovò sottosopra, isolato da una «sommossa» devastante. E c’è voluto un tempo ragionevole per calarsi tra quelle fiamme, e raccogliere la pesantissima eredità di Ancelotti, il suo «papà-adottivo», ma scoprire d’essere ignifugo.
LA NUOVA VITA. Il Gattuso napoletano sta vivendo la sua seconda vita da allenatore: nella prima, che pure non gli ha negato l’ansia della precarietà che spetta di diritto e per convenzione ai tecnici, prima ha dovuto fronteggiare le difficoltà economiche di qualche club e talvolta anche le manie di protagonismo di qualche presidente, poi ha potuto ri
mettersi in gioco e valutarsi nel Milan meno struggente di questi trent’anni, che però gli ha almeno potuto offrire se non l’allure del passato una specie di protezione da «effetto capanna». Napoli gli ha spalancato un universo insolito, in cui gli è stato chiesto d’imporsi a se stesso e successivamente di modellare il suo calcio, da amabile e inguaribile sognatore, convergendo verso un sano pragmatismo: ma nelle svolte, nelle sterzate più audaci, il rischio di scivolare e ritrovarsi sul ciglio del burrone è brutalmente meccanico. E’ stato in quell’istante in cui Gattuso ha smesso di essere «ringhio» o anche Rino e ha lasciato che l’immagine nuova eppure egualmente aderente alla sua natura emergesse ed ha raschiato il fondo della sua personalità, ma senza «abbellirla» d’esuberanza: il ponte sul futuro viene eretto dopo la sconfitta con il Lecce, porta in sé le granitiche certezze sulla consistenza della squadra («voi siete grandi, ricordatevelo») e spinge a costruire l’idea di leader fungendo da ombrello, mentre intorno s’avverte il pericolo. L’istinto di chi ha attraversato la propria esistenza vivendola da mediano è stata sistemata al fianco della panchina, sulla quale è emersa la ragionevole cautela di chi per una volta deve piegarsi ad un «compromesso»: calcio all’italiana, però sempre vestito da 4-3-3 (o 4-1-4-1), e non c’è da vergognarsi, visto che questo è un marchio identitario d’un movimento del Paese. Gattuso s’è intrufolato nella testa dei calciatori (con i quali stasera se ne va a cena, staff compreso), ha condiviso con De Laurentiis il processo di ravvedimento della squadra, è rimasto con Giuntoli a riscrivere - a gennaio - le tavole del mercato, poi ha dovuto dialogare con se stesso e azzardare, sviluppando gli anticorpi e mostrando i muscoli, ma quelli facciali, quelli che raccontano il mutamento d’una espressione e però anche il sentimento. Poi è arrivato all’Olimpico - e dopo essersi liberato della Lazio e dell’Inter, ed aver scavalcato indenne, in Champions, il Barcellona - e ha potuto guardarsi fiero dentro di sé (e sempre con quel filo di dolore inestinguibile, per sua sorella Francesca che non c’è più). La vita ricomincia a 42 anni.