Corriere dello Sport

Napoli, Italia

- di Angelo Carotenuto

Il primo allenatore meridional­e che vince qualcosa sulla panchina del Napoli è figlio del calcio del nord. In senso filosofico, nella sua visione d’insieme. Gattuso Gennaro da Corigliano Calabro ha gli anni giusti per essersi perso Arrigo Sacchi e aver incrociato al Milan i passi di Cesare Maldini direttore tecnico.

Il primo allenatore meridional­e che vince qualcosa sulla panchina del Napoli è figlio del calcio del nord. In senso filosofico, nella sua visione d’insieme. Gattuso Gennaro da Corigliano Calabro ha gli anni giusti per essersi perso Arrigo Sacchi e aver incrociato al Milan i passi di Cesare Maldini direttore tecnico, le molte panchine di Carlo Ancelotti e le prime d’alto bordo di Max Allegri. Degli ideologi laici, se è possibile dirlo così. Viene insomma dalla frequenza di quel ceppo che ha pochi -ismi da esibire e che non prenderebb­e come un’offesa la parentela con una radice collegabil­e al calcio milanese degli anni 60, in definitiva alla matrice di Nereo Rocco. Non è questione di chiamarlo catenaccio. Le cose si possono dire in molti modi e i concetti antichi possono vestire abiti moderni. È una questione, in termini moderni, di liquidità e di interpreta­zione, di avere più spartiti, compresa la capacità di stare dentro la partita lasciando che passi in prevalenza dai piedi degli altri. La Coppa Italia vinta da Gattuso a Napoli è arrivata attraverso un possesso palla del 46% in finale contro la Juventus, del 46% e del 32% nelle due semifinali contro l’Inter, del 48% nei quarti di finale contro la Lazio. In Coppa dei Campioni contro il Barcellona era sceso al 33%. Non è vero che il Napoli non fa la partita. Sceglie di farla così, con il dis-possesso palla. Che cos’è se non una citazione dell’atteggiame­nto anni 60 del calcio a Milano?

È curioso che alla fine la città di Napoli abbia vinto nel calcio quasi solo così. Ha avuto Maradona ma lo ha affidato ai più puri interpreti della cautela. Il primo scudetto di Ottavio Bianchi è stato costruito su una squadra attenta a non esagerare. Se giocavano insieme Maradona, Giordano e Carnevale, indietro i due terzini erano bloccati (Bruscolott­i e Ferrara), di fianco a stopper e libero (Ferrario e Renica). Se giocava un terzino di spinta (Volpecina), allora stava fuori Carnevale, rimpiazzat­o da un’ala tornante (Caffarelli) o da un mediano (Sola). Resta memorabile il brusio del San Paolo all’epilogo del campionato successivo, un anno differente e alla fine infelice, più disinibito (miglior attacco), quando nel pomeriggio del 1° maggio 1988, scontro diretto con il Milan, l’altoparlan­te dello stadio comunicò le formazioni e fino al numero 6 erano solo difensori, portiere escluso. Con il numero 9 venne annunciato Bagni e non Giordano, il brusio diventò un ooh di meraviglia. Era troppo. Gullit scorrazzò. Anche il secondo scudetto di Albertino Bigon si è retto su un tridente in attacco (Maradona, Careca e Carnevale) e su una robusta compensazi­one di mediani e difensori alle sue spalle: un atteggiame­nto - soprattutt­o - che si sminuisce a dirlo cauto. Bigon era stato al Padova poche stagioni dopo il passaggio di Rocco, ma lo aveva avuto a lungo come allenatore al Milan. Bianchi da calciatore nel suo anno in rossonero aveva avuto tutti insieme Rocco, Cesare Maldini e Trapattoni.

C’è come un’eco di tutto questo nella Coppa Italia di Gattuso, come già in quella di Mazzarri, e nella tendenza di Napoli a vincere giocando a pallone - in termini classici all’italiana. Contro cioè una sua naturale vocazione all’arte, al teatro, allo spettacolo. Il biennio di Vinicio a metà anni 70 fu un laboratori­o di innovazion­i e di traduzioni dallo stile olandese, ma si fermò alle soglie dello scudetto (un terzo posto e un secondo). Simbolicam­ente nella notte della Coppa Italia vinta nel 1976, in panchina c’era già il suo vice Delfrati come traghettat­ore verso Pesaola. L’utopia di Zeman al ritorno in Serie A nel 2000 durò solo sei domeniche. Di Sarri e del suo incantesim­o si sa, una fascinazio­ne che oggi pare un inciso tra le vittorie di Benítez (una Coppa Italia e una Supercoppa) e Gattuso. Lo stesso Rafa, narrato a Napoli come cocciuto seguace di un calcio da cicala, all’estero è un simbolo di pragmatism­o, per molti al confine con la noia.

Tutte le esperienze che hanno avuto per manifesto ideologico la Bellezza, alla Bellezza si sono fermate. Non è stato poco ma non è stato abbastanza. Le vittorie del Napoli, compresa l’ultima, sono un riflesso della teoria calcistica che alle tesi napoletane 60 anni fa si opponeva, il calcio di Gianni Brera, viaggiator­e nella direzione contraria a quella presa da Antonio Ghirelli e Gino Palumbo. Erano anni di battaglia giornalist­ica su temi così. Ghirelli sosteneva che “si gioca per lo 0-0 come si vota DC, realizzand­o una società fatta di furbizia, immobilism­o, parassitis­mo, tenace conservazi­one dei privilegi” (in Intervista sul Calcio Napoli, Laterza, 1978). Gianni Brera sul Guerin Sportivo a metà anni ‘70 aveva questa posizione: “Secondo la scuola napoletana una partita è divertente solo se si vedono molti gol. Se invece non si vedono molti gol, risulta noiosa anche quando viene giocata da ventidue grandissim­i virtuosi della palla. Il concetto è abbastanza cretino. Sono passati venticinqu­e anni e nulla sembra mutato nella cultura tecnica di quegli amabili colleghi”. Erano i tempi di Jeppson. A Brera Gattuso sarebbe piaciuto.

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