«COSÌ IL CALCIO HA SCONFITTO I PREGIUDIZI»
Il capo dei medici della Figc e la battaglia per ripartire Zeppilli: «La volontà di Gravina e il lavoro sul protocollo decisivi per convincere il Cts. Tifosi? Se i contagi non risaliranno...»
Chi sia stato ad avergli trovato il soprannome, Giobbe, resta una delle poche cose che non ci ha rivelato; ma al professor Paolo Zeppilli, il parallelo col mitico patriarca dell’Antico Testamento piace. «Giobbe - ci ha raccontato nel suo studio al Policlinico Gemelli, le cui pareti sono arricchite da immagini e cimeli della sua lunga avventura in la Nazionale - significa “osteggiato”, che “sopporta le avversità” con straordinaria pazienza. Quando il presidente Gravina, alla fine di marzo, chiese al sottoscritto, in qualità di coordinatore della Commissione Medica Federale, di valutare la possibilità di riprendere più avanti gli allenamenti collettivi, mi resi subito conto che la prova era veramente difficile. Gli altri sport si erano fermati e non tutti erano d’accordo (eufemismo, chiosa) sulla ripresa del calcio professionistico. Ci voleva coraggio e tanta… pazienza. Il resto lo hanno fatto le motivazioni, valide, che ci diede il presidente e la sua vicinanza».
Nel corso della nostra chiacchierata, l’uomo che ha dato un contributo importante all’eleborazione sia del protocollo per la ripresa degli allenamenti sia di quello per la fase agonistica, ogni tanto si è lasciato sfuggire qualche sorriso e il tono della voce è sempre stato disteso, ma neppure adesso ha dimenticato i momenti difficili che ha vissuto negli ultimi cento giorni, caratterizzati da “battaglie” dialettiche con la politica, il Cts e alcuni colleghi. Ci voleva, appunto, la pazienza di Giobbe per spuntarla.
Professor Zeppilli, iniziamo da una questione preliminare: perché ha deciso di parlare solo ora?
«Io sono un uomo di sport, ho giocato venti anni a pallavolo e ho fatto anche l’allenatore. Nei miei trascorsi ho imparato che più la partita è difficile, e più si deve parlare quando è caduto in terra l’ultimo pallone. Un concetto confermato dalla mia lunga esperienza come medico della Nazionale di calcio. Vi racconto un episodio su tutti. Usa ‘94, Nigeria-Italia, minuto 86: perdiamo 1-0 e siamo in dieci per l’ingiusta espulsione di Zola. Bisbiglio al dottor Andrea Ferretti, seduto accanto a me: “Mi sa che torniamo a casa prima del tempo”. Pochi secondi dopo, loro sbagliano una rimessa laterale, Mussi si invola sulla fascia, mette al centro per Roberto Baggio che segna l’1-1. Da quel momento, entra in gioco il mio “uomo”, Antonio Benarrivo, un maratoneta veloce che al 100’ si procura il rigore decisivo. Tutto questo per dire... meglio sempre parlare alla fine».
Sia sincero, ha mai pensato “il calcio per quest’anno non ripartirà”?
«Mai. Sono ottimista di natura, altrimenti non avrei potuto iniziare un lavoro del genere o mi sarei fermato dopo due giorni... Ho avuto dei dubbi, ma solo per qualche ora, quando la A insisteva per non fare il ritiro iniziale di 2 settimane propedeutico alla ripresa degli allenamenti. La notte dopo quella decisione ho riflettuto sul modello più “aperto” ovvero con i calciatori che tornavano a casa dopo ogni seduta. Sapevo che il rischio di contagio in queste condizioni è maggiore, ma ho anche realizzato che poteva essere una svolta e così è stato».
Perché invece la Commissione della Figc aveva scelto il “gruppo chiuso” per la ripresa degli allenamenti?
«Avevamo preso in esame varie ipotesi di protocollo medico e organizzativo. Il cosiddetto “gruppo chiuso” per 2-3 settimane in quel momento, ovvero a metà aprile, ci dava le maggiori garanzie di tutela della salute di tutti gli addetti ai lavori. Era la richiesta prioritaria del presidente Gravina e noi ci eravamo mossi in tal senso. E’ vero, era un protocollo impegnativo da realizzare, ma pensato per la Serie A e, con qualche aiuto, anche per la B. Si trattava in quel momento di riprendere gli allenamenti nella speranza che la curva dei contagi, come è poi avvenuto, consentisse maggiore elasticità. La Lega di A e B hanno preferito il “modello aperto”, più facilmente applicabile, ma con qualche rischio in più. Una scelta egualmente accettabile perché l’impianto medico a tutela dei calciatori e di tutti è rimasto sostanzialmente lo stesso. Finora si è rivelato efficace ed efficiente».
In questi mesi di lavoro c’è stato un momento in cui invece si è davvero arrabbiato?
«Sì, quando qualche giornalista ha scritto che io avevo intimato ai medici della Serie A di ubbidire al protocollo. Quelle frasi, che non avevo pronunciato perché non fanno parte del mio stile, mi misero contro Nanni (rappresentante dei medici della A, ndr) che conosco da 30 anni. Nella riunione di fronte al Cts mi ero limitato a dire che i medici di A, pur non del tutto d’accordo con il protocollo, sono dei professionisti di alto livello, che lavorano per squadre importanti e che, pur avendo delle difficoltà, si sarebbero organizzati per seguire un protocollo non facile. Tutto qua. C’è un verbale che testimonia le mie affermazioni».
Da cardiologo di fama, più difficile scrivere il protocollo per la ripartenza del calcio o un’operazione a cuore aperto?
«La seconda perché quando operi hai un paziente sotto i ferri e la sua vita dipende dal chirurgo, mentre per scrivere il protocollo c’era “solo” da fare una sintesi del pensiero di medici di livello internazionale che hanno messo la loro professionalità al servizio del Comitato tecnico scientifico della Figc». È stato più complicato stilare il protocollo o lottare contro i pregiudizi «Lottare contro i pregiudizi e contro il partito di coloro che non vedevano di buon occhio la ripartenza. Se n’è reso conto anche il presidente Gravina per questo all’inizio il nostro è stato un ragionamento basato sulla speranza, sul miglioramento futuro della situazione. Per fortuna non ci sbagliavamo».
È corretto dire che tutti hanno avuto la percezione che il campionato sarebbe ripartito, ma sarebbe anche arrivato al termine quando, la scorsa settimana, è passata definitivamente la norma sulla quarantena “soft”?
«Quella proposta della quarantena “soft” noi l’avevamo fatta il 18 aprile, ma evidentemente era troppo... all’avanguardia. Adesso il Cts ha ragionato come noi e ha concordato che, nel caso delle formazioni di Serie A, abbiamo a che fare con un gruppo... super studiato: la popolazione mondiale non può essere sottoposta a così tanti tamponi, non ha una sorveglianza medica così continua. Difficile pensare di fare tutto quel lavoro e poi bloccare il campionato per un positivo asintomatico».
«Tutti mi chiamano Giobbe: per vincere questa grande sfida servivano coraggio e tanta pazienza»
«Ottimista sempre Ho avuto dei dubbi, per qualche ora, quando la Serie A non voleva il ritiro»
«La quarantena soft l’avevamo proposta già il 18 aprile: non ci si poteva fermare per un asintomatico»
«Con il pubblico il calcio tornerebbe più vero: vediamo cosa accadrà tra qualche settimana»
Cosa è stato davvero determinante per la ripartenza? La volontà politica ferrea di Gravina o la “formula” trovata dalla commissione medico scientifica della Figc per scrivere i protocolli?
«Tutte e due. Il presidente ha tenuto la barra dritta dall’inizio alla fine e noi abbiamo cercato di convincere il Cts della bontà del nostro ragionamento sotto il profilo scientifico. Ci ha aiutato il calo dei contagi e il nostro pensiero, che all’inizio poteva sembrare utopico, si è rivelato giusto».
Come valuta la definizione data dal Cts («gravemente lacunoso e imperfetto») alla prima versione del vostro protocollo? «Nella riunione col Cts non avevo avuto la sensazione che pensassero quelle cose e quando ho letto certe parole sono rimasto perplesso. Non credo che i miei colleghi e io ce lo meritassimo, ma alla fine conta il risultato. E quello lo abbiamo ottenuto con la ripresa del campionato».
Adesso manca solo il pubblico negli stadi...
«Se i contagi non risaliranno, è possibile nelle prossime settimane qualcuno possa entrare a vedere le partite. Il calcio così tornerebbe ad essere più vero».
Realisticamente quando rivedremo i tifosi sugli spalti? «Bisogna andare per step perché il virus “gira” ancora, in alcune regioni di più e in altre meno. Sappiamo meglio come combatterlo e adesso per fortuna i malati che finiscono in terapia intensiva sono molti di meno rispetto a prima. Un segnale che il virus ha perso una parte della sua carica infettiva. Sapere che la situazione non è più drammatica come all’inizio è un sollievo, ma questo è un virus carogna, molto più di quello della Sars o del Mers che non hanno certo fatto questi disastri. Il coronavirus ci ha colti di sorpresa, ma abbiamo reagito bene nonostante fosse davvero molto aggressivo».
I cinema e i teatri sono già riaperti, gli stadi no. Giusto così? «Abbiamo già fatto un miracolo permettendo alla A e alla B di ripartire. Godiamoci un po’ la situazione. Il resto verrà con calma. Speriamo anche che arrivi un vaccino efficace e in tempi brevi. Così potremo proteggere tutti e il nostro protocollo non servirà più».
Teme la seconda ondata del Covid che qualcuno prevede in autunno?
«Il protocollo e l’esperienza che abbiamo purtroppo maturato in questi mesi saranno importanti per il futuro. Se succederà qualcosa che nessuno di noi si augura, sapremo come muoverci, mentre a febbraio nessuno era in grado di prevedere quello che sarebbe successo».
È d’accordo che per la ripresa del calcio dilettantistico, femminile e di quello giovanile servono regole meno stringenti rispetto a quelle del protocollo per la Serie A e B?
«Ci stiamo lavorando perché sappiamo che l’attuale modello non può essere riproposto per tutti, soprattutto per quelle società che hanno minori disponibilità economiche. Bisogna trovare una soluzione che tuteli la salute, ma che permetta a tutti di tornare a giocare a calcio».
In questo perido ha dovuto fronteggiare anche alcune critiche. Il professor Castellacci, già responsabile sanitario azzurro, per esempio non è stato sempre tenero...
«Anche lui in questa vicenda ha svolto un suo ruolo perché rappresenta molti, ma non tutti, i medici del calcio (è presidente della Lamina, la Libera Associazione Medici Italiani Calcio, ndr). Noi nella nostra Commissione avevamo un rappresentante dei medici della A eletto all’unanimità (il dottor Nanni, ndr), un rappresentante dei medici della Lega B come Salini e altri specialisti abituati a stare sul campo, come il professor Ferretti, gente con un curriculum professionale e scientifico completo e dalla grande esperienza nel mondo del calcio. Fare polemica era ed è inutile».
Dopo questa pandemia il ruolo del medico nell’universo del pallone sarà più centrale?
«Il medico sociale era, è e sarà sempre fondamentale. Se uno ha una squadra professionistica deve avere un medico sociale sotto contratto e ben retribuito. I medici sociali sono una risorsa importante, anzi indispensabile, per il pallone e lo hanno dimostrato anche durante questa emergenza sanitaria».
In Serie A 18 giocatori hanno avuto il Covid e sono tornati o torneranno a breve in campo. Corrono più rischi rispetto agli altri che sono reduci semplicemente da uno stop di 3 mesi? «I giovani calciatori che hanno contratto il virus, ma sono stati asintomatici o paucisintomatici (con sintomi inferiori, ndr), non hanno avuto né danni cardiaci e né respiratori tanto è vero che le tac polmonari alle quali sono stati sottoposti hanno dato tutte risultati negativi. Diverso il discorso per i pazienti finiti in terapia intensiva o sub intensiva. Ma per fortuna non è il caso di nessuno dei nostri calciatori. Presto su questo tema sarà pubblicato uno studio fatto dai miei collaboratori del reparto di Medicina dello Sport del Gemelli, diretto ora dal professor Palmieri».