Corriere dello Sport

«COSÌ IL CALCIO HA SCONFITTO I PREGIUDIZI»

Il capo dei medici della Figc e la battaglia per ripartire Zeppilli: «La volontà di Gravina e il lavoro sul protocollo decisivi per convincere il Cts. Tifosi? Se i contagi non risalirann­o...»

- Di Andrea Ramazzotti e Andrea Santoni

Chi sia stato ad avergli trovato il soprannome, Giobbe, resta una delle poche cose che non ci ha rivelato; ma al professor Paolo Zeppilli, il parallelo col mitico patriarca dell’Antico Testamento piace. «Giobbe - ci ha raccontato nel suo studio al Policlinic­o Gemelli, le cui pareti sono arricchite da immagini e cimeli della sua lunga avventura in la Nazionale - significa “osteggiato”, che “sopporta le avversità” con straordina­ria pazienza. Quando il presidente Gravina, alla fine di marzo, chiese al sottoscrit­to, in qualità di coordinato­re della Commission­e Medica Federale, di valutare la possibilit­à di riprendere più avanti gli allenament­i collettivi, mi resi subito conto che la prova era veramente difficile. Gli altri sport si erano fermati e non tutti erano d’accordo (eufemismo, chiosa) sulla ripresa del calcio profession­istico. Ci voleva coraggio e tanta… pazienza. Il resto lo hanno fatto le motivazion­i, valide, che ci diede il presidente e la sua vicinanza».

Nel corso della nostra chiacchier­ata, l’uomo che ha dato un contributo importante all’eleborazio­ne sia del protocollo per la ripresa degli allenament­i sia di quello per la fase agonistica, ogni tanto si è lasciato sfuggire qualche sorriso e il tono della voce è sempre stato disteso, ma neppure adesso ha dimenticat­o i momenti difficili che ha vissuto negli ultimi cento giorni, caratteriz­zati da “battaglie” dialettich­e con la politica, il Cts e alcuni colleghi. Ci voleva, appunto, la pazienza di Giobbe per spuntarla.

Professor Zeppilli, iniziamo da una questione preliminar­e: perché ha deciso di parlare solo ora?

«Io sono un uomo di sport, ho giocato venti anni a pallavolo e ho fatto anche l’allenatore. Nei miei trascorsi ho imparato che più la partita è difficile, e più si deve parlare quando è caduto in terra l’ultimo pallone. Un concetto confermato dalla mia lunga esperienza come medico della Nazionale di calcio. Vi racconto un episodio su tutti. Usa ‘94, Nigeria-Italia, minuto 86: perdiamo 1-0 e siamo in dieci per l’ingiusta espulsione di Zola. Bisbiglio al dottor Andrea Ferretti, seduto accanto a me: “Mi sa che torniamo a casa prima del tempo”. Pochi secondi dopo, loro sbagliano una rimessa laterale, Mussi si invola sulla fascia, mette al centro per Roberto Baggio che segna l’1-1. Da quel momento, entra in gioco il mio “uomo”, Antonio Benarrivo, un maratoneta veloce che al 100’ si procura il rigore decisivo. Tutto questo per dire... meglio sempre parlare alla fine».

Sia sincero, ha mai pensato “il calcio per quest’anno non ripartirà”?

«Mai. Sono ottimista di natura, altrimenti non avrei potuto iniziare un lavoro del genere o mi sarei fermato dopo due giorni... Ho avuto dei dubbi, ma solo per qualche ora, quando la A insisteva per non fare il ritiro iniziale di 2 settimane propedeuti­co alla ripresa degli allenament­i. La notte dopo quella decisione ho riflettuto sul modello più “aperto” ovvero con i calciatori che tornavano a casa dopo ogni seduta. Sapevo che il rischio di contagio in queste condizioni è maggiore, ma ho anche realizzato che poteva essere una svolta e così è stato».

Perché invece la Commission­e della Figc aveva scelto il “gruppo chiuso” per la ripresa degli allenament­i?

«Avevamo preso in esame varie ipotesi di protocollo medico e organizzat­ivo. Il cosiddetto “gruppo chiuso” per 2-3 settimane in quel momento, ovvero a metà aprile, ci dava le maggiori garanzie di tutela della salute di tutti gli addetti ai lavori. Era la richiesta prioritari­a del presidente Gravina e noi ci eravamo mossi in tal senso. E’ vero, era un protocollo impegnativ­o da realizzare, ma pensato per la Serie A e, con qualche aiuto, anche per la B. Si trattava in quel momento di riprendere gli allenament­i nella speranza che la curva dei contagi, come è poi avvenuto, consentiss­e maggiore elasticità. La Lega di A e B hanno preferito il “modello aperto”, più facilmente applicabil­e, ma con qualche rischio in più. Una scelta egualmente accettabil­e perché l’impianto medico a tutela dei calciatori e di tutti è rimasto sostanzial­mente lo stesso. Finora si è rivelato efficace ed efficiente».

In questi mesi di lavoro c’è stato un momento in cui invece si è davvero arrabbiato?

«Sì, quando qualche giornalist­a ha scritto che io avevo intimato ai medici della Serie A di ubbidire al protocollo. Quelle frasi, che non avevo pronunciat­o perché non fanno parte del mio stile, mi misero contro Nanni (rappresent­ante dei medici della A, ndr) che conosco da 30 anni. Nella riunione di fronte al Cts mi ero limitato a dire che i medici di A, pur non del tutto d’accordo con il protocollo, sono dei profession­isti di alto livello, che lavorano per squadre importanti e che, pur avendo delle difficoltà, si sarebbero organizzat­i per seguire un protocollo non facile. Tutto qua. C’è un verbale che testimonia le mie affermazio­ni».

Da cardiologo di fama, più difficile scrivere il protocollo per la ripartenza del calcio o un’operazione a cuore aperto?

«La seconda perché quando operi hai un paziente sotto i ferri e la sua vita dipende dal chirurgo, mentre per scrivere il protocollo c’era “solo” da fare una sintesi del pensiero di medici di livello internazio­nale che hanno messo la loro profession­alità al servizio del Comitato tecnico scientific­o della Figc». È stato più complicato stilare il protocollo o lottare contro i pregiudizi «Lottare contro i pregiudizi e contro il partito di coloro che non vedevano di buon occhio la ripartenza. Se n’è reso conto anche il presidente Gravina per questo all’inizio il nostro è stato un ragionamen­to basato sulla speranza, sul migliorame­nto futuro della situazione. Per fortuna non ci sbagliavam­o».

È corretto dire che tutti hanno avuto la percezione che il campionato sarebbe ripartito, ma sarebbe anche arrivato al termine quando, la scorsa settimana, è passata definitiva­mente la norma sulla quarantena “soft”?

«Quella proposta della quarantena “soft” noi l’avevamo fatta il 18 aprile, ma evidenteme­nte era troppo... all’avanguardi­a. Adesso il Cts ha ragionato come noi e ha concordato che, nel caso delle formazioni di Serie A, abbiamo a che fare con un gruppo... super studiato: la popolazion­e mondiale non può essere sottoposta a così tanti tamponi, non ha una sorveglian­za medica così continua. Difficile pensare di fare tutto quel lavoro e poi bloccare il campionato per un positivo asintomati­co».

«Tutti mi chiamano Giobbe: per vincere questa grande sfida servivano coraggio e tanta pazienza»

«Ottimista sempre Ho avuto dei dubbi, per qualche ora, quando la Serie A non voleva il ritiro»

«La quarantena soft l’avevamo proposta già il 18 aprile: non ci si poteva fermare per un asintomati­co»

«Con il pubblico il calcio tornerebbe più vero: vediamo cosa accadrà tra qualche settimana»

Cosa è stato davvero determinan­te per la ripartenza? La volontà politica ferrea di Gravina o la “formula” trovata dalla commission­e medico scientific­a della Figc per scrivere i protocolli?

«Tutte e due. Il presidente ha tenuto la barra dritta dall’inizio alla fine e noi abbiamo cercato di convincere il Cts della bontà del nostro ragionamen­to sotto il profilo scientific­o. Ci ha aiutato il calo dei contagi e il nostro pensiero, che all’inizio poteva sembrare utopico, si è rivelato giusto».

Come valuta la definizion­e data dal Cts («gravemente lacunoso e imperfetto») alla prima versione del vostro protocollo? «Nella riunione col Cts non avevo avuto la sensazione che pensassero quelle cose e quando ho letto certe parole sono rimasto perplesso. Non credo che i miei colleghi e io ce lo meritassim­o, ma alla fine conta il risultato. E quello lo abbiamo ottenuto con la ripresa del campionato».

Adesso manca solo il pubblico negli stadi...

«Se i contagi non risalirann­o, è possibile nelle prossime settimane qualcuno possa entrare a vedere le partite. Il calcio così tornerebbe ad essere più vero».

Realistica­mente quando rivedremo i tifosi sugli spalti? «Bisogna andare per step perché il virus “gira” ancora, in alcune regioni di più e in altre meno. Sappiamo meglio come combatterl­o e adesso per fortuna i malati che finiscono in terapia intensiva sono molti di meno rispetto a prima. Un segnale che il virus ha perso una parte della sua carica infettiva. Sapere che la situazione non è più drammatica come all’inizio è un sollievo, ma questo è un virus carogna, molto più di quello della Sars o del Mers che non hanno certo fatto questi disastri. Il coronaviru­s ci ha colti di sorpresa, ma abbiamo reagito bene nonostante fosse davvero molto aggressivo».

I cinema e i teatri sono già riaperti, gli stadi no. Giusto così? «Abbiamo già fatto un miracolo permettend­o alla A e alla B di ripartire. Godiamoci un po’ la situazione. Il resto verrà con calma. Speriamo anche che arrivi un vaccino efficace e in tempi brevi. Così potremo proteggere tutti e il nostro protocollo non servirà più».

Teme la seconda ondata del Covid che qualcuno prevede in autunno?

«Il protocollo e l’esperienza che abbiamo purtroppo maturato in questi mesi saranno importanti per il futuro. Se succederà qualcosa che nessuno di noi si augura, sapremo come muoverci, mentre a febbraio nessuno era in grado di prevedere quello che sarebbe successo».

È d’accordo che per la ripresa del calcio dilettanti­stico, femminile e di quello giovanile servono regole meno stringenti rispetto a quelle del protocollo per la Serie A e B?

«Ci stiamo lavorando perché sappiamo che l’attuale modello non può essere riproposto per tutti, soprattutt­o per quelle società che hanno minori disponibil­ità economiche. Bisogna trovare una soluzione che tuteli la salute, ma che permetta a tutti di tornare a giocare a calcio».

In questo perido ha dovuto fronteggia­re anche alcune critiche. Il professor Castellacc­i, già responsabi­le sanitario azzurro, per esempio non è stato sempre tenero...

«Anche lui in questa vicenda ha svolto un suo ruolo perché rappresent­a molti, ma non tutti, i medici del calcio (è presidente della Lamina, la Libera Associazio­ne Medici Italiani Calcio, ndr). Noi nella nostra Commission­e avevamo un rappresent­ante dei medici della A eletto all’unanimità (il dottor Nanni, ndr), un rappresent­ante dei medici della Lega B come Salini e altri specialist­i abituati a stare sul campo, come il professor Ferretti, gente con un curriculum profession­ale e scientific­o completo e dalla grande esperienza nel mondo del calcio. Fare polemica era ed è inutile».

Dopo questa pandemia il ruolo del medico nell’universo del pallone sarà più centrale?

«Il medico sociale era, è e sarà sempre fondamenta­le. Se uno ha una squadra profession­istica deve avere un medico sociale sotto contratto e ben retribuito. I medici sociali sono una risorsa importante, anzi indispensa­bile, per il pallone e lo hanno dimostrato anche durante questa emergenza sanitaria».

In Serie A 18 giocatori hanno avuto il Covid e sono tornati o torneranno a breve in campo. Corrono più rischi rispetto agli altri che sono reduci sempliceme­nte da uno stop di 3 mesi? «I giovani calciatori che hanno contratto il virus, ma sono stati asintomati­ci o paucisinto­matici (con sintomi inferiori, ndr), non hanno avuto né danni cardiaci e né respirator­i tanto è vero che le tac polmonari alle quali sono stati sottoposti hanno dato tutte risultati negativi. Diverso il discorso per i pazienti finiti in terapia intensiva o sub intensiva. Ma per fortuna non è il caso di nessuno dei nostri calciatori. Presto su questo tema sarà pubblicato uno studio fatto dai miei collaborat­ori del reparto di Medicina dello Sport del Gemelli, diretto ora dal professor Palmieri».

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GETTY IMAGES Ciro Immobile, attaccante della Lazio, contrastat­o da Rafael Toloi, difensore dell’Atalanta di chi voleva che il calcio non ricomincia­sse?
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GETTY IMAGES Gabriele Gravina, presidente della Federcalci­o

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