La Benedetta di Dybala
L’evoluzione della “maledetta” di Pirlo è nel delizioso, preziosissimo sinistro di Paulo, capace come pochi di aprire le partite
Paulo Dybala è il tardo innamoramento di un vecchio cronista che credeva di avere già visto tutto. E il meglio di tutto. Felicemente smentito perché ogni scoperta - capitemi -, ogni inattesa novità gli allunga la vita.
Da Pedernera a Maradona e Messi: un lungo viaggio tra passato e presente per celebrare l’arte di Paulo l’argentino che ama la modestia e dribbla i paragoni
Paulo Dybala è il tardo innamoramento di un vecchio cronista che credeva di avere già visto tutto. E il meglio di tutto. Felicemente smentito perché ogni scoperta capitemi -, ogni inattesa novità gli allunga la vita. Era una raccomandazione dei maestri, dico Montanelli come Brera: cercate facce nuove, nuovi protagonisti, non rimarcate sempre personaggi che con il tempo tanti non riconoscono perché gli italiani si buttano sempre sull’ultimo eroe. E con quello - precisava Brera - battagliate.
Io ho battagliato per Dybala, non contro, perché me ne ha dato il destro Max Allegri, del quale condivido tante idee, tuttavia maldestro come tutti gli allenatori che soffrono la presenza di calciatori meravigliosi e “già nati”, campioni non prodotti dalla loro mente che credono fattrice come quella di Giove che partorí la virago Minerva.
Allegri lo snobbò com’era toccato a Sivori con Heriberto, a Corso con Helenio, a Baggio con Lippi e Ulivieri, e prima a Rivera con Giagnoni, dura la vita dei poeti del fùtbol.
Dybala era già nato quando lo vidi a Palermo e ne conobbi anche le rare qualità umane, umiltà e educazione, quest’ultima rarissima. Così, quando arrivò alla Juve e qualcuno lo paragonò a Sivori mi ribellai: il mio amico Omar era uno spaccamontagne spesso insopportabile. «Mi chiedete chi è il più grande? Non contate me e vi dico Maradona». E lo diceva soprattutto in odio a Pelé. Forse mi sbaglio ma non ho mai sentito Dybala paragonarsi a qualcuno, neanche adesso che quando parli di argentini ti dicono che il più grande è Messi, un altro che sfoggia modestia come i campioni veri. Come Maradona, che se faceva qualche nome di grandi rivali della sua terra era perché glieli suggerivano. Li ho conosciuti tutti, i grandi storici pedatori argentini, da Di Stefano a Diego, da Messi a Milito, gli altri sono ancora in cronaca e sono eroi vivissimi, traggono vantaggio dalla tivù che ripete ossessivamente i loro gol più belli.
Paulo Dybala - mantra “sinistro a giro sul secondo palo” e nascerà la sua “Benedetta” dopo la “Maledetta” di Pirlo - ha segnato un gol perfetto all’Inter nell’ultimo doloroso Derby d’Italia, contagiandomi ma senza stupirmi, lui segna così; e contro il Bologna, dopo la peste, quel sinistro sotto l’incrocio realizzato con raffinata potenza, subito segnalato dall’Uefa come monstrum, avendo già adottato a simbolo della Maravilla il “sinistro a giro” offerto in Champions alla Lokomotiv di Mosca; ma l’altra sera, quel poetico gol al Lecce (l’aveva mancato poco prima, identico tiro) ha fatto tornar voglia di precedenti, di antichi modelli, di perché perché perché i suoi gol sono cosí fascinosi. Capita a certi ragazzini prodigio: da chi ha preso, dal babbo o dalla mamma? È virtù innata? È scuola? Ho conosciuto maestri. Mi sono imbattuto in Meazza, mito assoluto, che un giorno a Coverciano - sotto gli occhi ridenti di Giuanin Ferrari pur in giacca e cravatta insegnava ai pargoli a colpire di destro e di sinistro, interno e esterno. Mi hanno sempre detto che i mancini nascono cosí e non s’azzardano a cambiare, come Mariolino. Dybala è magico, fa anche la partita degli altri, serve anche Ronaldo, poi quando gli gira fa il ‘giro’. È nato cosí. Anzi, è nato argentino. Come i tangueros da Eduardo Blanco. E dunque al monte ci dev’essere qualcuno.
Ho fatto uno sforzo di magìa, un incontro paranormale con Gigio Carniglia, Alfredo Di Stefano, Valentin Angelillo, unico rappresentante degli Angeli Dalla Faccia Sporca (Sivori no, avrebbe fatto troppo casino, e neanche Humberto Maschio da Avellaneda saggiamente vivo) e tutti, plaudendo alla Joya che li ravviva, mi hanno confermato che così si nasce, salvo citare un eterno maestro il cui nome s’impara da bambini spesso senza sapere chi sia: Adolfo Pedernera. Per colpa sua ho talvolta odiato il mio amico Carniglia che quando aveva finito le iperboli e la sua storia nei Millionarios di Bogotà, i pedatori esiliati da Peron, tirava fuori Pedernera. L’ho forzatamente archiviato, era un inno al Dio Sconosciuto. Ma un giorno, eletto con tanti colleghi di tutto il mondo Di Stefano come il Migliore in assoluto, più di Pelé e Maradona, mi hanno fatto leggere sul web una nota proprio di Alfredo: «Pelé, Maradona o io? Chi è stato il migliore tra noi? Si vede che non avete mai visto giocare Pedernera. Lui è stato un gradino sopra gli altri. Sopra tutti. Sempre. Se oggi, dopo che ho vinto tutto, e ne ho viste di ogni colore, dopo che ho segnato a chiunque e ho giocato al fianco dei migliori, se chiedete a me che cosa penso quando chiudo gli occhi e sussurro nella mia mente la parola “fùtbol”, io vi dirò che la mia testa non risponderà, mentre il mio cuore penserà invece sempre e solo ad una persona: Adolfo Pedernera. Lui per me è stato un maestro. È stato il calcio. Tutto questo, lo devo a lui. Il calcio lo veneri, sempre; perché così non ne incontrerà mai più”».
Dopo tanti anni, grazie a Paulo Dybala, il ragazzo che un anno fa era un pacco da smistare fra Milano e Manchester e Londra, ho fatto pace con Luis “Gigio” Carniglia che mi ha insegnato insieme a Angelillo a amare gli argentini come fossero italiani. Perché lo sono, e hanno onorato la maglia azzurra pur sentendosi dire “oriundi”. Come Renato Cesarini da Senigallia che elegantissimo, l’aria di un habitué di Montecarlo, una Muratti fumante fra le dita, diceva: «Italiano?Argentino? Fate voi...».
Era stato snobbato da Allegri come era capitato a Sivori con Heriberto Herrera
L’evoluzione di un campione che ha saputo riprendersi la Juve