Corriere dello Sport

Zdenek e il fantasma

- Di Angelo Carotenuto

Non volevamo uscire dalle farmacie per entrare nei cortili. La campagna condotta da Zeman negli Anni Novanta sul doping nello sport italiano è stata un grande momento di consapevol­ezza, una presa di coscienza su una questione a lungo taciuta. Fu un’intuizione coraggiosa. Nell’estate del 1998, nel ritiro della Roma di Predazzo, parlò di un calcio gonfiato e lo fece con chiarezza. Pochi mesi dopo il laboratori­o antidoping dell’Acquacetos­a si fermava, chiuso dal Comitato internazio­nale olimpico, con cinque indagati per aver insabbiato i test. Fino al 2000 l’antidoping italiano si è fatto all’estero. Era una battaglia. La carriera di Zeman ne porta ancora le ferite. Nel suo libro di memorie “La giustizia non è un sogno”, il magistrato torinese Guariniell­o ha raccontato sia lo stupore dell’epoca nello scoprire che «le analisi venivano fatte ma le sostanze dopanti non venivano cercate» sia la frustrazio­ne successiva nel verificare che certi reati di frode sportiva erano configurab­ili ma erano ormai prescritti. Come ha scritto Marco Bellinazzo in “La fine del calcio italiano”, la lunghezza dei procedimen­ti finì «per annacquare sia l’indignazio­ne dell’opinione pubblica che le responsabi­lità penali». In una successiva intervista al quotidiano dei vescovi Avvenire, Guariniell­o avrebbe poi detto: «Zeman non è che sapesse più di tanto, ma il suo allarme ci aprì un fronte fino ad allora ignoto, quello dell’abuso dei farmaci».

Oltre vent’anni dopo, di ignoto in questo campo non c’è più nulla. Abbiamo visto il ciclismo sfregiato, dover prendere provvedime­nti contro i suoi più grandi campioni, campioni epocali. Abbiamo visto severità e ipocrisie. Siamo in un tempo diverso rispetto al 1998. Siamo in un tempo nel quale un’antica e alta battaglia non può diventare una sua parodia. Tutto è più in chiaro rispetto ad allora. Sono in chiaro finanche le ombre. Anche le nostre disillusio­ni. Sappiamo persino che il doping è sempre più avanti dell’antidoping. Ci sono morti che il calcio italiano non sa spiegare. Viviamo ciascuno in cuor nostro il tormento per medaglie olimpiche o corse o titoli che paiono sospetti. Proprio in questi giorni abbiamo avuto due campioni mondiali di atletica leggera sospesi per aver saltato ripetutame­nte dei controlli. Non possiamo vedere ancor più seminato il territorio delle illazioni. Non da un simbolo come Zeman.

Il calcio è controllat­o da Nado Italia. Test sulle urine dopo tutte le partite, a campione invece quelli sul sangue. «Anche a sorpresa: out of competitio­n», dice al telefono il dottor Giuseppe Capua, primario di medicina dello sport e presidente della commission­e antidoping della Federcalci­o. «Non è una questione rimossa dal calcio, c’è grande attenzione e piena coscienza, siamo tra gli sport sottoposti a più controlli». Tra fine anni 90 e 2001 la Serie A fu scossa da un’invasione di nandrolone. Negli ultimi quattordic­i anni ha avuto tre squalifica­ti. Il punto allora è questo, non i chilometri corsi dall’Atalanta. I casi recenti di Magnini e di Iannone hanno fatto emergere l’esigenza di una nuova riflession­e su doping e antidoping, più complessa, più ricca di sfumature, impossibil­e da semplifica­re come in una chiacchier­a fatta al bar.

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