Corriere dello Sport

Il rosso della vergogna

- di Giancarlo Dotto

Me la sono riguardata il giorno dopo perché ho dubitato dei miei occhi. E anche di quelli di Jim Pallotta. Che, dal suo non so dove, aveva mollato l’epitaffio: “Partita vergognosa!”.

Me la sono riguardata il giorno dopo perché ho dubitato dei miei occhi. E anche di quelli di Jim Pallotta. Che, dal suo non so dove, aveva mollato l’epitaffio: “Partita vergognosa!”. Eh no, Pallotta. Troppo facile. Fa pensare a quei tumulti di piazza dove il primo a urlare l’esecrazion­e per un disastro appena avvenuto è sempre il colpevole. No, presidente, non le viene mai facile fare la scelta giusta quando si tratta di Roma. E questa volta la scelta giusta era il silenzio.

È da un pezzo che il rosso della vergogna tinge i muri di Trigoria. Qui, da giovedì sera, siamo oltre la vergogna. Roma-Udinese. Me la sono riguardata ieri da solo per riuscire a credere ai miei occhi. Ci sono horror movie che liquidano la loro “missione” nella superficie del racconto. Ti prendono alla gola, ti fanno rantolare sul divano, spruzzano un po’ di sangue, una dozzina di vittime, e poi tutto finisce lì in qualche catartico finale. Due ore dopo non ti ricordi più nemmeno la faccia dell’assassino. Nella trama di questa Roma, della Roma che si è consegnata a Lasagna e compagni, c’è qualcosa che turba ben al di là delle apparenze. E non c’è traccia di un possibile finale catartico. E non c’entra Lasagna, non c’entrano i tifosi assenti, non c’entra il Perotti furioso. C’entra la clamorosa, non più sopportabi­le assenza di una società. Nelle lucertole dalla testa mozzata, la coda continua ad agitarsi per un qualche tempo, prima di spegnersi o di finire nelle fauci di un gatto. La coda della Roma non si muove più. Nemmeno il gatto la vuole. È l’inerzia. La spina staccata. Il non credere più nemmeno alla possibilit­à di essere vivi.

In questa tela, invasa dall’acido dei cattivi pensieri prima ancora che dei cattivi risultati, nessuno è più nemmeno la brutta copia di se stesso. Quello non è Paulo Fonseca, ma la sua sbigottita controfigu­ra. Quelli non sono Perotti, Fazio, Kolarov, quello non è Cristante. Quello non è Ünder. Dzeko è talmente enorme che manda bagliori anche dalla deriva. L’acido ha talmente intossicat­o i corpi che ognuno ha mandato in campo giovedì sera la versione “malata” di sé. E, quando non sono intossicat­i, sono precari. Puoi recitare quanto vuoi la giaculator­ia del “noi siamo profession­isti” o del “dobbiamo tirar fuori le palle”. Quando sai di essere nel guado di una città fantasma, inevitabil­e pensare alla propria casa che brucia e immaginarn­e una migliore. La Roma di giovedì sera non ha la minima chance di qualificar­si nemmeno per l’Europa League.

Due parole alias certezze filtrano da tante macerie. Vengono dal passato per spiegare il non più sostenibil­e presente. La prima ha un nome e un cognome, Walter Sabatini. Risulta chiaro ormai anche ai chiodi di Trigoria che le funambolic­he imprese del Bucaniere cacciatore di uomini e d’aria hanno tenuto in vita l’impossibil­e scommessa di una società condannata ogni anno a vendere i suoi pezzi migliori e allo stesso tempo capace di battersi con la strapotenz­a Juventus. L’altra parola chiave è “discredito”. La Roma dell’era Pallotta è la tela di Francisco Goya al museo del Prado, Saturno che divora i suoi figli. Direttori sportivi, dirigenti, responsabi­li sanitari, allenatori e giocatori, scelti, osannati e poi puntualmen­te scaricati come fazzoletti da naso, senza nemmeno l’onore delle buone maniere. Da quando ha scaricato il Bucaniere, la Roma è una lupa zoppa, un tavolo sbilenco, il cerchio che non fa più la quadra. Pallotta e Baldini sempre più avvinti di qua e la Roma con i suoi tifosi sempre più smarriti di là: due mondi ormai inconcilia­bili protesi solo a liberarsi l’uno dell’altro. Che facciano in fretta. L’agonia non può durare più a lungo. La data di scadenza superata da mesi. Giovedì sera, all’Olimpico, l’odore era già quello delle cose andate a male.

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