Corriere dello Sport

BERRETTINI «IL PRIMO COACH? MIA NONNA»

Il numero uno azzurro tra ripresa e... consigli «Mi ripeteva: leggi tanto e scrivi tanto. Lo faccio ancora e conservo le mie riflession­i personali E’ utile mettere in parole quello che sento»

- Di Giorgio Burreddu

La fantasia l’ha imparata da nonna Lucia, che quando era piccolo gli ripeteva «leggi tanto e scrivi tanto», e allora Matteo Berrettini chiudeva gli occhi, faceva sì con la testa e quel consiglio non se l’è mai più scordato. Poi alla fantasia ha unito la tecnica, il talento, la sfacciatag­gine, il coraggio, ed è venuto fuori quel gran pezzo di tennis italiano che è. «Sto bene, mi sto anche divertendo. Mi mancavano l’agonismo, l’adrenalina, l’emozione: sto ritrovando anche tutto il resto. Stavo giocando un’altra esibizione, ma questa si avvicina al tennis normale».

Scende tra le strade a esse di Kitzbuhel, dove Matteo è andato a disputare il torneo dell’altro ragazzo prodigio del tennis, Dominic Thiem. Ma il suo sguardo è più lungo, arriva fino a settembre, a quegli US Open che un anno fa servirono per farci innamorare di lui. «Ti cambia la vita in alcuni aspetti, ma non cambia il rapporto con le persone che ci sono sempre state. Una persona si può innamorare di me e del mio tennis, però non altera il mio modo di interfacci­armi ai miei familiari. La differenza è che loro sono ancora più fieri di me. Il successo è una cosa a parte, uno lo gestisce come vuole. Io però non sono un vip, non mi piace vivere nella notorietà». Atleta Red Bull, Berrettini sarebbe piaciuto ai registi di Hollywood per sentimento e profondità. Che Matteo rimescola nel suo tennis sincero. «Questo è un anno particolar­e - dice - un anno che non è iniziato nel modo migliore, prima l’infortunio, poi il virus. Un anno sicurament­e diverso. Ma bisogna rendersi conto che il virus non ha fermato solo lo sport»

Giocherà gli US Open?

«Ci sono troppi punti interrogat­ivi ancora, la situazione è un po’ complessa, bisogna sapere alcune cose: il viaggio d’andata, il ritorno, cosa succederà se uno dovesse risultare positivo in America, se può tornare o se non può. Quindi decideremo una volta sapute tutte queste cose».

Ma la pancia che le dice?

«E’ ovvio che mi piacerebbe, mi piacerebbe tornare a competere a livelli di quel tipo. Anche se sarebbe diverso, senza pubblico».

Come vive i tamponi, i continui controlli: sono un peso o si sente più sicuro? «Ormai siamo abituati, quindi non è un peso. Credo sia necessario per la sicurezza di tutti. E’ giusto che si faccia, se questo serve a tenerci lontano dai problemi. Finché non arriva il vaccino questa è l’unica maniera per stare sicuri».

Influirà sul tennis?

«Sarà decisament­e diverso. Il modo di giocare no, ma rapportars­i con gli altri sì. Le prime settimane di tutti i tornei saranno strane. La maggior parte dei tennisti non gioca da tempo, non ha l’adrenalina, la tensione. Di esibizioni ce ne sono tante, ma è diverso. E lo è anche il calendario: dal cemento alla terra in così pochi giorni».

Tecnicamen­te cosa cambia? «Bisogna prepararsi bene, è impensabil­e fare risultati tutte le settimane. Bisognerà gestirsi bene».

Lei ripensa più alle vittorie o alle sconfitte?

«Un po’ a tutte e due, però più alle vittorie. Sono i pensieri più belli. Magari penso alle sconfitte e poi alle cose positive che sono successe dopo, a quanto sono partito da lontano».

Cosa ha scritto durante il lockdown?

«Pensieri personali, riflession­i, cose mie, né romanzi né gialli, solo cose che mi fa piacere rileggere a distanza di tempo per vedere come si è evoluto il processo».

E’ la nonna che le ha dato i consigli giusti.

«Le mie prof alle medie dicevano che scrivevo male, quella del liceo che scrivevo bene. Nonna fu la prima a dirmi che dovevo continuare a farlo. Adesso con il mio mental coach insistiamo su questa cosa».

Ci vuole costanza.

«Di indole non sono pigro, ma per alcune cose sì. Con la scrittura divento pigro se non mi sento ispirato. Ma la coltivo parecchio, il mio mental coach dice che riesco a mettere in parole quello che sento e che provo. Mi è utile».

Scrittura, e anche lettura. Ha incontrato libri che hanno influenzat­o la sua vita?

«I libri ti colpiscono sempre. Tanti. “Il più grande uomo scimmia del pleistocen­e” mi ha colpito per l’ironia e per la critica al mondo attuale. E’ un libro degli anni Sessanta ma si ritrovano ancora le stesse problemati­che nel mondo. E’ incredibil­e».

Una volta ha detto di non voler perdere mai la normalità. Che cosa vuol dire essere normale? «Normalità che vuol dire? Per me vuole dire rimanere me stesso, sempre, uno che continua a vivere tutte le esperienze come la prima volta. Non abituarsi, fare cose con entusiasmo. Sempre».

Cosa le manca di più della vita di prima?

«La libertà di fare quello che vuoi senza dover pensare troppo, senza aspettare notizie dagli organi competenti».

Ha scoperto qualcosa di sé nel lungo periodo di stop, qualcosa che non sapeva di avere?

«Mi sono accorto di quanto la competizio­ne e il tennis fossero una parte integrante della mia vita quotidiana. Mi è mancata l’adrenalina, la sfida, il voler essere il migliore in tutto quello che faccio. Non ci pensavo. Pensavo di poter vivere in maniera più rilassata».

Invece ha avuto crolli?

«No, ma ho avuto dubbi rispetto a quello che stava succedendo, dubbio sul fatto che non si potesse ricomincia­re. Se non si può viaggiare, mi dicevo, come si fa a fare la vita che faccio».

E quindi non può esserci un tennis senza essere nel frullatore? «Per me no, ma io mi ci sono ritrovato. Magari Federer è più abituato, il suo frullatore frulla un po’ meno. Il mio però va al massimo. E’ la vita che facciamo».

«Non so se giocherò gli US Open, ci sono ancora troppe cose da sapere»

«Con il lockdown ho capito che il tennis è parte integrante di me»

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