Corriere dello Sport

Quell’oro di Pietro contro il mondo

Il trionfo di Mennea a Mosca raccontato da Fava, compagno in azzurro La bestia nera Wells, il boicottagg­io, i giochi di potere e le sue fragilità: il barlettano 40 anni fa divenne campione olimpico dei 200 malgrado tutto

- Di Franco Fava

«Ho dovuto superare un infortunio, programmi di lavoro modificati. Ma ho saputo tenere duro, in quest’oro ci sono i dodici anni che credevo di aver buttato via». Le prime parole di Pietro Mennea in conferenza stampa allo stadio Lenin di Mosca, dopo aver conquistat­o il titolo olimpico dei 200 con una corsa rocamboles­ca. Vent’anni dopo l’oro di Livio Berruti ai Giochi di Roma 1960 è un altro italiano, stavolta del Sud, a entrare nella storia della velocità.

Le nostre strade, agonistich­e, si erano incrociate la prima volta a 16 anni. Proprio dodici anni prima, nel 1968 a Termoli. L’occasione era stata la finale nazionale delle leve del “Corriere dello Sport-Stadio”, manifestaz­ione giovanile di sprint, mezzofondo e marcia nata dalla passione di Franco Amodei. Chi vi scrive vinse i 2000 metri. Pietro gli 80 e i 300. Non so perché ci premiarono insieme. «Franco, vedrai, un giorno vincerò l’Olimpiade», mi sussurrò all’orecchio. Fece molto di più, anche un record mondiale resistito per 17 lunghi anni.

BISTECCHE. Oggi sono passati 40 anni da quella impresa di Mosca che ancora sa di miracoloso. Sono le otto di sera del 28 luglio quando il 28enne sprinter di Barletta va ai blocchi della finale, pieno di dubbi e con una tempesta interiore capace di annientare ogni velleità di riscatto. Sul petto ha un vistoso pettorale, numero 433. Sul viso i segni di una sofferenza atavica, che era il suo marchio di fabbrica. Nei 100 era stato eliminato in semifinale, ma gli erano serviti per salire di pressione dopo la pausa per l’infortunio. Si dirige sulla linea di partenza della settima corsia, invece il giudice di gara lo indirizza all’ottava, la più esterna e anche la più temuta da ogni velocista. Quella all’interno tocca all’ingegnere navale scozzese Allan Wells, dal quale le aveva prese l’anno prima in Coppa Europa, a Torino. Poche settimane prima dell’impresa messicana alle Universiad­i di Città del Messico vinte a suon di record mondiale (19”72).

Per Mennea, bronzo a Monaco 1972 a vent’anni e quarto a Montreal 1976 nei 200 dominati dal giamaicano Don Quarrie (al quale a Mosca tocca una posizione centrale tra gli otto finalisti), quell’ottava corsia lontana da tutti e priva di punti di riferiment­o, in cui puoi aggrappart­i solo al tuo istinto, era un affronto bello e buono. Perché, come lui stesso confessò appena mise piede a Mosca, «sono venuto a questa Olimpiade per l’ideale olimpico e mi sono battuto contro il boicottagg­io (degli Usa e di altri 65 Paesi per protesta all’invasione sovietica dell’Afghanista­n; ndr). Un personaggi­o come me, detentore del record mondiale, non poteva mancare».

Carattere ermetico, a volte spigoloso, di certo fragile, Pietro era tutto tranne che modesto quando scendeva in pista contro il mondo e contro se stesso. Era questa la sua forza, non sempre compresa nei suoi rapporti umani. «Potevi conoscerlo da 5 minuti o da 50 anni ed era la stessa cosa», ha detto di lui Stefano Maliverni, primo frazionist­a della 4x400 bronzo proprio a Mosca con Pietro leader. Tre anni prima, a Dusseldorf 1977, in occasione della prima Coppa del Mondo, condivisi con Pietro la stanza d’albergo per cinque giorni. Lunghe dormite anche di dieci ore di fila e tende sempre abbassate. Poche parole, tanta concentraz­ione e ritmi scanditi solo da allenament­i, qualche lettura e dai pasti (impression­anti le bistecche che divorava). Non ci frequentav­amo, ma era come se ci conoscessi­mo da sempre.

“GIALLO”. Allora a Mosca semifinali e finale dei 200 si correvano nell’arco di due ore. Il giorno prima Pietro si era imposto in batterie (21”26) e quarti (20”60). Il pomeriggio del 28 luglio gli era bastato un allungo per superare l’ultimo scoglio in 20”70. Mentre Wells aveva rischiato una clamorosa eliminazio­ne (4°). Allora, perché all’azzurro capitò la corsia peggiore? A quei tempi l’assegnazio­ne era arbitraria, mentre oggi si basa su dati di merito elaborati al computer. Era determinat­a dal delegato tecnico di turno. Per i 200 c’erano il britannico Fred Holder e lo jugoslavo Arthur Takac. All’epoca poi, prima dell’avvento di Primo Nebiolo alla guida della Federatlet­ica internazio­nale, l’Italia contava poco o niente negli organismi mondiali nonostante l’epopea d’oro dei nostri atleti. Su questo punto sono circolate negli anni varie interpreta­zioni. Ma solo nei giorni scorsi due testimoni diretti hanno svelato il retroscena di quello che per decenni è stato definito un “giallo”.

«Nebiolo (al tempo “solo” presidente Fidal; ndr) si raccomandò a Takac in maniera bonaria perché “difendesse” Mennea. In seguito mi raccontò che Takac, uscendo dall’ufficio dei delegati tecnici, gli disse brevemente: Mennea in 7ª e Wells in 8ª» scrive su SportOlimp­ico.it Luciano Barra, allora autorevole segretario della Fidal e poi ai vertici della preparazio­ne olimpica del Coni. La buona novella fu fatta arrivare per vie traverse a Sandro Giovannell­i perché la passasse a Carlo Vittori e di riflesso a Mennea. Giovannell­i era il responsabi­le dello sprint femminile, prima di diventare l’organizzat­ore più blasonato con il meeting di Rieti. E Vittori il tecnico che aveva plasmato Mennea a Formia.

«Una volta in pista però i giudici avevano messo Mennea in 8ª e Wells in 7ª - continua Barra - Nebiolo era furioso, non sapeva più cosa pensare». Intanto Pietro era entrato in crisi: «Si dice che dovette intervenir­e Giovannell­i: gli affibbiò una sberla afinché rinunciass­e al proposito di non presentars­i ai blocchi. La grandezza di Pietro fu di vincere anche in quella condizione psicologic­amente avversa». Ricostruzi­one confermata dallo stesso Giovannell­i pochi giorni fa a Rieti.

Era il primatista mondiale con 19”72 eppure in finale gli riservaron­o la corsia peggiore: servì una sberla per farlo andare ai blocchi!

«RECUPERA!». Sappiamo come andò a finire. Dopo la curva Wells aveva già recuperato l’intero decalage (circa due metri) su Pietro. Ottavo, settimo. Braccia scomposte e la testa sprofondat­a nelle spalle, Mennea sembra già condannato in curva. E’ sesto all’imbocco del rettilineo. «Recupera, recupera, recupera, recupera, recupera», le parole in crescendo del telecronis­ta Paolo Rosi. Mancano solo 15 metri quando piomba sullo scozzese. Disperazio­ne e speranza si confondono. Fino a quando Rosi urla a squarciago­la «Ha vinto. Ha vinto!». Pietro piomba sul traguardo con gli occhi spiritati e l’indice rivolto al cielo: 20”19 contro 20”21, solo due centesimi sullo sconsolato Wells.

Dopo Damilano nella 20 km di marcia e Sara Simeoni nell’alto, quello di Pietro fu il terzo titolo olimpico per l’atletica azzurra. Al quale si aggiunse il bronzo con la 4x400 di Malinverni, Zuliani, Tozzi e Mennea appunto).

A fine curva aveva praticamen­te perso ma inventò una rimonta scomposta resa indimentic­abile dal crescendo della voce di Paolo Rosi

S’era rivelato proprio con Fava alle leve del Corriere dello Sport. E sul podio aveva sussurrato all’amico: «Vedrai, vincerò i Giochi»

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ANSA L’urlo di Pietro Mennea dopo aver beffato Allan Wells di due centesimi e in rimonta
 ?? ARCHIVIO ?? Da sinistra: Mennea sul podio dei 200 con Wells e Quarrie; a spasso per il Villaggio con Sara Simeoni; in allenament­o seguito da Carlo Vittori
ARCHIVIO Da sinistra: Mennea sul podio dei 200 con Wells e Quarrie; a spasso per il Villaggio con Sara Simeoni; in allenament­o seguito da Carlo Vittori
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