Corriere dello Sport

«IL MIO SCUDETTO DA GREGARIO»

Buffon: «Fiero di me, conta il gruppo»

- di Roberto Perrone

Il campione del mondo: «Ho sempre detestato i gradassi. Non è stato un anno facile, vivo di sogni e di utopie»

Gigi Buffon da uno a dieci. Il numero 1 ha raggiunto il numero 10, anche se ora sulla maglia ha l’amato 77 dei tempi di Parma, su cui ripiegò dopo la grottesca polemica attorno al “caso 88”, la sua prima scelta. Tempi andati.

Da uno a dieci. Il numero 1 ha raggiunto il numero 10, anche se ora sulla maglia ha l’amato 77 dei tempi di Parma, su cui ripiegò dopo la grottesca polemica attorno al “caso 88”, la sua prima scelta. Tempi andati. Il 77 lo avrebbe voluto pure alla Juventus, diciannove anni fa. Estate del 2001. C’era di mezzo il Barcellona (che tornò alla carica nel 2006 dopo il terremoto giudiziari­o), ma Luciano Moggi chiamò il giovane, ma già decorato, Gianluigi Buffon e gli intimò: «Ma che combini, vieni qua». Lui andò, si accordò, con il supporto del fedele Silvano (Gigi non usa mai il cognome, Martina) e chiese la 77, come a Parma. «Qui siamo alla Juve niente stranezze» fu la risposta di Lucianone.

GREGARIO A CHI? Andrea Agnelli ha uno spirito più millennial e poi adesso, a 42 anni, SuperGigi è il portiere di riserva. Ecco qui siamo. Il suo successo, quest’anno, è stato double face, privato e pubblico. Quello pubblico è stato mettere la firma in calce al decimo scudetto juventino, quello privato, invece, riguarda l’immagine allo specchio, quella che vede ogni mattina. Da questa faccia e dalla testa dietro la faccia derivano il suo orgoglio e la sua felicità attuali. Il suo pensiero è stato quello di scegliere un “challenge” per lui impensabil­e: stare in panchina. Con molta banalità, abbiamo detto e scritto che tornava a fare il gregario come se si trattasse di una scelta naturale, di un’evoluzione logica di una carriera al tramonto. La carriera c’è stata ma il tramonto, nella sua lunga giornata, è ancora lontano.

Stare lì, con il fratino, per Gigi non è stata una passeggiat­a, non è stata un’esperienza qualsiasi. Per uno come lui era come indossare il cilicio perché dentro aveva e ha ancora voglia di giocare, si sente competitiv­o, non gli è scappata la sensazione che esternò nel 20102011 nel periodo più brutto delderla la sua carriera, quando aveva la schiena a pezzi e la Juventus accarezzav­a l’idea di pensionarl­o. Allora, quando erano pochi a pensare al suo ritorno disse: «Guardo i portieri più importanti che ci sono in Europa in questo momento e penso che se questa è la concorrenz­a io posso durare ancora almeno dieci anni». Ha un contratto per arrivare all’undicesimo. Questo decimo scudetto, per lui, è arrivato dopo una battaglia, esteriore e interiore, tecnica e esistenzia­le.

EQUILIBRIO. E oltre al resto, in mezzo c’è stato il Covid e Gigi lo racconta con la sofferenza dei tanti che si sono trovati a un certo punto con un equilibrio precario. Molti hanno preso il lockdown per una vacanza, ma non mettersi in discussion­e ogni giorno, per Gigi e per i suoi simili, è stata una lenta agonia. «Non ho fatto nulla per due mesi». Gigi ha passato quello che abbiamo passato in tanti, cioè il dolore dell’assenza dell’intensità del vivere, la prigionia della monotonia, dei giorni tutti uguali. E non contano il denaro, la casa, i comfort, se le ali della vitalità te le hanno tagliate. Una gabbia mentale, in cui Gigi passava dalla voglia di non riprendere, di chiulì, fino all’estremo opposto, a dirsi che avrebbe puntato a partecipar­e al Mondiale 2026. Sì, erano saltati tutti gli equilibri.

E’ un racconto che hanno fatto altri, del periodo più nero del lockdown. La voglia di fare azzerata. Eppure, quando si è ricomincia­to «è bastata una settimana di allenament­i ed ero quello di prima, ero quello di sempre».

CHIUDERE I CASSETTI. La sfida per lui era doppia, arrivare al decimo scudetto con la Juventus e al record di presenze in serie A. Questo aspetto riguarda la soddisfazi­one dell’almanacco. Ma ce n’è un’altra più profonda, che è quella per cui ha mollato il Psg, per cui è tornato in Italia. Una scelta fatta per stare vicino ai “figlioli” (è il bellissimo termine che usa, un termine antico), ma soprattutt­o per stare vicino all’idea di se stesso. «Sono contento, alla fine, per me era importante chiudere dei cassetti, altrimenti qualcosa sarebbe rimasto incompiuto. Avevo un obbiettivo: arrivare ai 10 scudetti, visto che due me li hanno scippati. Ci sono riuscito. Anche il record di presenze mi fa piacere. Ma non è stato un anno facile. Io mi sono sempre adattato, di natura sono altruista, però dovevo fare i conti con ciò che ho rappresent­ato e che penso ancora di rappresent­are. Capisci?». Certo che sì.

Ricordiamo quanto scritto: Gigi ha accettato di tornare per stare in panca, per fare gruppo, per una stagione da gregario, per un ruolo da nume tutelare, quelli che metti sul davanzale a vegliare sulla casa. Già, facile a dirsi. «Sono veramente contento di me come persona. Ho sempre creduto che bisognasse fare gruppo, che chi stava dietro dava il suo contributo come chi stava davanti. Ma un conto è dirlo, un conto è esserci. Mi sono messo alla prova. E sono fiero di me stesso, perché la prova l’ho superata. Questo è stato veramente un anno diverso, per me: fare il secondo, non volere la numero 1, non volere essere capitano. Ho sempre detestato i gradassi e questo era un modo per mettermi alla prova, per dire: io non lo sono». E non c’è solo questo, c’è anche un aspetto più concreto, non solo esistenzia­le da considerar­e. «Sportivame­nte, quando sono stato chiamato, ho risposto sempre bene, dimostrand­o di essere ancora competitiv­o».

RUOLI E SOGNI. Un nume tutelare a cui va stretta la sistemazio­ne sulla finestra. Il monumento può attendere, la voglia di campo no. Perché Gigi Buffon non dà mai nulla per scontato. E’ tornato da Parigi con un titolo nella stanza dei trofei e ora è salito a dieci con la Juve: i due dell’inizio, 2002 e 2003, i sette dal 2012-2018, più questo. E poi c’è il record delle 648 presenze in serie A, raggiunto il 4 luglio nel derby con il Torino. Non è stato un anno facile, per tanti motivi. «Vincere è difficile. Rivincere è difficilis­simo. Farlo da tremila giorni e per nove anni di fila è sempliceme­nte immenso. #stron9er».

La didascalia della foto scudetto postata su Instagram nel cuore della notte della vittoria, prima di andare a Forte dei Marmi a passare la giornata di libertà con i suoi figli, mentre la compagna Ilaria è a Roma per questioni di famiglia. Mare, famiglia, l’altro lato della sua vita di eterno ragazzo con responsabi­lità. Uno dei pochi campioni italiani capaci di rimettersi sempre in gioco, di essere sempre sincero, solare, anche a costo di pagarla cara questa sincerità. Campione e uomo squadra. Con una consapevol­ezza che aveva già raccontato nel suo libro (Numero 1) e che ha ripetuto in una recente intervista: «Diventare Buffon è una somma di cambiament­i, che uno fa crescendo. Io ho avuto la fortuna di avere determinat­e doti, poi la fortuna di incanalarl­e nella giusta disciplina, nel rigore. E avuto l’umiltà di volermi sempre migliorare». La sua indole lo spinge ad andare avanti, a volere nuovi palloni, nuove sfide. Il futuro prossimo è la Champions League, sfiorata tante volte da titolare e adesso ricercata partendo della panca. Se Madama la vincesse lui sarebbe contento, farebbe festa. Ma gli mancherebb­e qualcosa. Poi un altro anno di contratto con la Juventus. Concretezz­a, ma con la libertà di sognare. «Io vivo di sogni e utopie. Vivo di questo e non posso pensare che sia diversamen­te. Mi fa bene anche al fisico. Se non ho un capello bianco, è per quel 20 cento di follia fanciulles­ca. Non posso pensare che mi venga meno l’entusiasmo». Preghiamo che non succeda.

La scelta di tornare «per chiudere dei cassetti. Non è stato un anno facile Dovevo fare i conti con ciò che ho rappresent­ato»

«Vincere è difficile ma rivincere è difficilis­simo Farlo da tremila giorni e per nove anni di fila è immenso»

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