I Friedkin ripartono da zero: in cerca di una nuova area
ROMA - Dal parco di Pallotta allo stadio della Roma. La differenza, o meglio la distanza ideologica, è in due parole gelide: «mera utilizzatrice». La società le ha scritte nel comunicato di addio al progetto Tor di Valle, svelando una verità strategicamente innegabile: la Roma non sarebbe stata proprietaria dello stadio ma solo (appunto) mera utilizzatrice del medesimo. Fine delle favole dopo 9 anni di comunicazioni paradossali affidate a megalomani presenzialisti. La Roma avrebbe giocato nell’ex ippodromo come concessionaria, pagando un canone annuale addirittura più alto di quello che versa attualmente per l’Olimpico. Lo stadio però sarebbe stato di proprietà del padrone, così come tutto il complesso immobiliare che Pallotta avrebbe costruito con il pretesto dello stadio stesso. Niente di male, per un finanziere che valorizza le risorse per rivenderle. Ma i Friedkin, che hanno una visione imprenditoriale di lungo periodo, hanno ritenuto che quell’idea pensata nel 2012, con cubature immense destinate a uffici ormai poco vendibili a causa dell’abitudine allo smart working, fosse poco conveniente nell’era del Covid.
CORE BUSINESS. La rottura con il passato, almeno nelle intenzioni, appare netta: i Friedkin vogliono lo stadio e solo lo stadio, che sarà tutto della Roma senza affitti e/o concessioni pluriennali. Il loro obiettivo non è evidentemente filantropico, intendiamoci. C’è sempre un’idea di sviluppo economico alla base. E quindi di profitto. Ma il progetto avrà al centro di tutto l’infrastruttura, con le attività ad essa connesse: ristoranti, bar, store, al limite un albergo, in linea con ciò che accade in quasi tutti i club inglesi e tedeschi, principale esempio a cui i Friedkin si rivolgono. Riassumendo, per Pallotta il core business era il complesso immobiliare, edificabile solo con il bollino dell’interesse pubblico di una squadra di calcio. Per i Friedkin tutto ruoterà invece attorno allo stadio, che se costruito entrerà nel bilancio della Roma e non di una società satellite.
Non sarà un percorso facile, né breve. Questo i Friedkin lo hanno capito immediatamente, ancora prima di comprare la Roma. Serviranno tempo e pazienza. Servirà soprattutto competenza nella selezione degli interlocutori. Ma dal loro punto di vista ogni operazione dovrà essere sostenibile, snella e trasparente. In questo senso si spiega l’assunzione di Stefano Scalera, un professionista molto inserito nel mondo politico. La partita istituzionale è affidata a lui e a un’altra figura entrata in gioco, Francesco Pastorella, che guida l’ufficio dei rapporti con il territorio. Saranno loro, ovviamente sotto il diretto controllo della proprietà, a cercare la nuova area.
IDEE. Tante sono le opzioni sul tavolo. La prima, la più logica, sarebbe la ristrutturazione del Flaminio, un gioiello in disuso. I Friedkin hanno chiesto informazioni. Ma si sono resi conto che l’area non risponde ai requisiti di spazio e sicurezza sufficienti, per non parlare della burocrazia legata ai beni culturali. Sono plausibili anche le valutazioni sull’ampia area di Tor Vergata, come quella dell’ex gazometro nel quartiere Ostiense, oppure ancora le vecchie ipotesi di Fiumicino o della Massimina. I Friedkin ne parleranno alla sindaca uscente, Virginia Raggi, nell’incontro organizzato per venerdì prossimo. Ma ormai è impensabile che vengano mossi passi ufficiali prima delle elezioni comunali. I prossimi mesi saranno dedicati all’individuazione dell’area più idonea e alla designazione dell’architetto che si occuperà del progetto. Il resto verrà dopo. Quando? Inutile immaginarlo: 4, 6, 10 anni. Il lato tremendamente negativo è che la Roma deve ripartire da zero.