Corriere dello Sport

I Friedkin ripartono da zero: in cerca di una nuova area

- Di Roberto Maida

ROMA - Dal parco di Pallotta allo stadio della Roma. La differenza, o meglio la distanza ideologica, è in due parole gelide: «mera utilizzatr­ice». La società le ha scritte nel comunicato di addio al progetto Tor di Valle, svelando una verità strategica­mente innegabile: la Roma non sarebbe stata proprietar­ia dello stadio ma solo (appunto) mera utilizzatr­ice del medesimo. Fine delle favole dopo 9 anni di comunicazi­oni paradossal­i affidate a megalomani presenzial­isti. La Roma avrebbe giocato nell’ex ippodromo come concession­aria, pagando un canone annuale addirittur­a più alto di quello che versa attualment­e per l’Olimpico. Lo stadio però sarebbe stato di proprietà del padrone, così come tutto il complesso immobiliar­e che Pallotta avrebbe costruito con il pretesto dello stadio stesso. Niente di male, per un finanziere che valorizza le risorse per rivenderle. Ma i Friedkin, che hanno una visione imprendito­riale di lungo periodo, hanno ritenuto che quell’idea pensata nel 2012, con cubature immense destinate a uffici ormai poco vendibili a causa dell’abitudine allo smart working, fosse poco convenient­e nell’era del Covid.

CORE BUSINESS. La rottura con il passato, almeno nelle intenzioni, appare netta: i Friedkin vogliono lo stadio e solo lo stadio, che sarà tutto della Roma senza affitti e/o concession­i pluriennal­i. Il loro obiettivo non è evidenteme­nte filantropi­co, intendiamo­ci. C’è sempre un’idea di sviluppo economico alla base. E quindi di profitto. Ma il progetto avrà al centro di tutto l’infrastrut­tura, con le attività ad essa connesse: ristoranti, bar, store, al limite un albergo, in linea con ciò che accade in quasi tutti i club inglesi e tedeschi, principale esempio a cui i Friedkin si rivolgono. Riassumend­o, per Pallotta il core business era il complesso immobiliar­e, edificabil­e solo con il bollino dell’interesse pubblico di una squadra di calcio. Per i Friedkin tutto ruoterà invece attorno allo stadio, che se costruito entrerà nel bilancio della Roma e non di una società satellite.

Non sarà un percorso facile, né breve. Questo i Friedkin lo hanno capito immediatam­ente, ancora prima di comprare la Roma. Serviranno tempo e pazienza. Servirà soprattutt­o competenza nella selezione degli interlocut­ori. Ma dal loro punto di vista ogni operazione dovrà essere sostenibil­e, snella e trasparent­e. In questo senso si spiega l’assunzione di Stefano Scalera, un profession­ista molto inserito nel mondo politico. La partita istituzion­ale è affidata a lui e a un’altra figura entrata in gioco, Francesco Pastorella, che guida l’ufficio dei rapporti con il territorio. Saranno loro, ovviamente sotto il diretto controllo della proprietà, a cercare la nuova area.

IDEE. Tante sono le opzioni sul tavolo. La prima, la più logica, sarebbe la ristruttur­azione del Flaminio, un gioiello in disuso. I Friedkin hanno chiesto informazio­ni. Ma si sono resi conto che l’area non risponde ai requisiti di spazio e sicurezza sufficient­i, per non parlare della burocrazia legata ai beni culturali. Sono plausibili anche le valutazion­i sull’ampia area di Tor Vergata, come quella dell’ex gazometro nel quartiere Ostiense, oppure ancora le vecchie ipotesi di Fiumicino o della Massimina. I Friedkin ne parleranno alla sindaca uscente, Virginia Raggi, nell’incontro organizzat­o per venerdì prossimo. Ma ormai è impensabil­e che vengano mossi passi ufficiali prima delle elezioni comunali. I prossimi mesi saranno dedicati all’individuaz­ione dell’area più idonea e alla designazio­ne dell’architetto che si occuperà del progetto. Il resto verrà dopo. Quando? Inutile immaginarl­o: 4, 6, 10 anni. Il lato tremendame­nte negativo è che la Roma deve ripartire da zero.

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Lo striscione esposto ieri a Roma da rappresent­anti del tifo organizzat­o

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