La sofferenza come prezzo del successo
Il caso ritmica e il ricordo di un incontro illuminante di tanti anni orsono Nadia Comaneci, la più grande ginnasta di sempre, e la sua terribile confessione. Disse: «Metodi brutali»
Scrive Marta Pagnini, già capitana della ginnastica ritmica azzurra, nelle ore in cui diverse ginnaste hanno denunciato casi di umiliazioni e abusi psicologici: «Uno degli aspetti fondamentali della ginnastica ritmica è la grande disciplina che viene presto appresa dalle atlete, fin dai primi giorni in palestra e senza distinzione di livello: dalla pettinatura alla postura, dalla cura del proprio corpo al rispetto per le compagne e per gli insegnanti. Nel mio percorso ho dovuto far fronte a tanti ostacoli, alcuni ‘fisiologici’, classici del percorso di una ginnasta, altri assolutamente evitabili e che hanno lasciato piccole o grandi ferite nel mio cuore di bambina, adolescente e poi donna. (…) Ho incontrato allenatrici che mi hanno dato tantissimo, che mi hanno cresciuta e supportata con ogni mezzo, che hanno creduto in me e mi hanno motivata. Allo stesso modo ho incontrato persone negative, che mi hanno resa insicura e fragile, che hanno usato parole pesanti e offensive nei miei confronti, portandomi a passare momenti di grande tristezza e difficoltà, anch’essi formativi a loro modo. Questo è avvenuto quando ero molto piccola e poi anche nei primi anni in nazionale e l’ho raccontato più volte parlando della mia storia». Marta ha vinto un bronzo olimpico a Londra 2012, due ori e sei argenti mondiali in carriera, da poco è diventata mamma.
L’ho conosciuta, insieme ad altre ginnaste, al Festival di Spoleto, l’1 di luglio del 2017. Ero stato invitato da Rossana Ciuffetti, direttrice della Scuola dello Sport, a raccontare le mie esperienze olimpiche e sono andato fuori tema - si parlava della ritmica - raccontando della mia amicizia con Nadia Comaneci, la più famosa ginnasta del mondo.
Volevo sottolineare certi aspetti di una vita favolosa tuttavia segnata da immensi sacrifici - questo mi aveva raccontato Nadia - ma il clima festoso del convegno mi spinse a tacere. Ch’è un’arte. Spesso, purtroppo, anche una fuga dalla realtà. Dalla verità.
A San Lazzaro di Savena, alle porte di Bologna, in aperta campagna c’era “Il laghetto” di Fenara - un bolognese che faceva parte dello staff di Amaduzzi e Benvenuti - dove spesso venivano in ritiro pugili e altri atleti. Ricordo Angelo Jacopucci che si preparava per il match con Minter che gli tolse la vita. Era il ‘78.
Anni dopo mi annunciarono una visita straordinaria, Nadia Comaneci, la ragazzina romena già famosa che accogliemmo con grande simpatia. Era accompagnata da due giornalisti di Bucarest collaboratori del Guerin Sportivo, Aurel Neagu direttore di Sportul Popular e il suo redattore Eftimie Jonescu. In Nadia, timida e riservata ma con gli occhi di una conquistatrice, s’intravvedeva la donna bellissima che un giorno avrebbe affascinato il mondo. L’avevo vista e applaudita alle
Olimpiadi di Mosca, nell’Ottanta, quando prima dell’oro di Pietro Mennea vagavo cercando altri sport, in particolare la ginnastica che mi aveva colpito a Monaco ‘72, ai tempi della piccola Olga Korbut, una figurina che esprimeva magìa. E conoscevo anche lei, Nadia, la prima ginnasta della storia ad aver ottenuto un 10 come punteggio ai Giochi di Montreal, nel 1976.
Aveva 14 anni, in carriera avrebbe vinto 9 medaglie alle Olimpiadi, 4 ai Mondiali e 12 agli Europei.
Poi il silenzio volò via e Nadia cominciò a raccontare una incredibile storia di sofferenze quando le chiesi - era un dettaglio - quello che mi avevano detto di Olga Korbut, ch’era rimasta uno scricciolo perché le avevano fermato il ciclo, negato l’adolescenza. Un riso amaA ro, una lacrima: «Olga? Tante come lei…».
Nadia aveva cominciato a sei anni, a Bucarest, nella palestra di due severissimi insegnanti ungheresi che per portare le allieve al top usavano metodi brutali, le affamavano, le punivano fisicamente e psicologicamente. «Notti in bianco a piangere - raccontava Nadia - allenamenti al gelo e al caldo insopportabili, ma tenevo duro, il premio era la vittoria. E quando sono arrivata a vincere non ho dimenticato, ma ho capito. Aveva ragione mia mamma che mi teneva su senza lasciarmi mai e mi consolava quando soffrivo».
«Questo - commentava Neagu - è il prezzo del successo». Ma minimizzava perché doveva tornare a casa, nella Romania di Ceausescu. In confidenza - mentre Nadia raccontava davanti a un piatto fumante di tortellini - venivano fuori i farmaci anti ciclo mestruale, gli steroidi anabolizzanti, i maltrattamenti “sportivi” che trasmettevano immagini degne di “Full Metal Jacket”. Come la storia di Yelena Mukhina, un’altra vittima dell’Ottanta. Nadia - anche grazie ai suoi amici giornalisti, e anche a noi che gli davamo preziose lire - andò molto meglio. Perché ebbe la forza di fuggire da Bucarest e dalle oscene attenzioni di Nicu Ceausescu che voleva farla sua: un racconto come un romanzo d’appendice, Nicola Ceausescu e la moglie furono giustiziati la notte di Natale 1989, Nicu sarebbe morto in carcere a 45 anni. Mentre Nadia, approdata negli Stati Uniti, dopo mille peripezie ha trovato la felicità.
Nel ‘96 si è concessa anche una visita trionfale in Romania. Come sempre, in tutte le storie di successo, il traguardo si raggiunge attraverso la sofferenza. Come camminare sui carboni ardenti.
«Notti a piangere allenamenti al gelo o al caldo ma tenevo duro»
«Il premio era la vittoria. E vincendo non ho dimenticato ma ho capito»