Corriere dello Sport

Kertész e Tòth eroi antinazist­i

Antisemiti­smo e violenza hanno libero accesso allo stadio, non li ferma la legge, ma può rieducarli la conoscenza Come la storia dei due allenatori ungheresi - attivi in Italia - uccisi mentre difendevan­o gli ebrei di Budapest

- Il punto d’incontro quotidiano tra un grande giornalist­a e i lettori del Corriere dello Sport-Stadio Scrivete a di Italo Cucci

Caro Cucci, lo scorso fine settimana ho avuto modo di vedere all’Istituto Italiano di Cultura a Malta lo spettacolo teatrale “Il Bradipo e la Carpa” che racconta la storia di due allenatori magiari - Kertész e Tóth - uccisi durante l’invasione nazista dell’Ungheria. Di questa storia non sapevo nulla, eppure ho letto che la Compagnia Carnevale, che l’ha messa in scena, è stata di recente al Catania Off Fringe Festival e da gennaio andrà in tour in varie scuole del Nord Italia. Mi hanno sempre incuriosit­o queste vicende che mischiano calcio e storia e sarei curioso di saperne di più. Qual è la sua opinione al riguardo?

Kurt Vella gmail.com

Ho seguito con interesse il convegno di Roma “La storia siamo noi”, ho letto gli interventi di Malagò e Gravina, condividen­do ovviamente la condanna dei violenti e dei cialtroni che esibiscono antisemiti­smo dimostrand­o non solo animo volgare ma soprattutt­o miseria intellettu­ale. Non credo tuttavia che questo incontro fornirà armi adeguate agli uomini di buona volontà: tanti dibattiti, tante sollecitaz­ioni agli organi sportivi e statali, agli intellettu­ali e agli ignoranti son serviti in decenni a poco se appena un giorno fa la senatrice Liliana Segre - vittima dei nazisti ieri, dei social dementi oggi - ha dovuto affrontare i suoi mostri ricorrendo alla Giustizia.

Vale, piuttosto, l’appello alla cultura, l’unica “condanna” in grado di rieducare i cialtroni. Condanna a studiare, leggere, vedere documentar­i e far quel viaggio a Auschwitz che suggerii in tv, dopo una partita Polonia-Italia a Chorzow dell’85 che mi permise - grazie alla Nazionale - di scoprire come la vicina Oświęcim altro post@corsport.it italocu39@me.com non era che Auschwitz. Non tutti i nostri ospiti ci tenevano a farlo sapere.

Caro amico, la storia siamo noi - è vero - ma pochi la conoscono. Ad esempio, di Géza Kertész e István Tóth i due allenatori di calcio ungheresi uccisi dai nazisti per aver salvato degli ebrei e dei resistenti durante la seconda guerra mondiale - parlai a Catania dieci anni fa, a un incontro con giocatori del passato, non per caso: Kertész aveva vissuto lì quattro anni di successo e un comitato che porta il suo nome è riuscito a fargli dedicare una via, una targa, uno spazio nel murale dello stadio “Massimino”. In più, “Il Bradipo e la Carpa” che lei cita, è la versione drammaturg­ica di “Due eroi in panchina”, il libro del collega Roberto Quartarone che ha svelato la vicenda umana e sportiva dei due eroi. Già: eroi davvero, non quelli della domenica che scrivono altre storie spesso felici. Kertész e Tóth - impersonat­i da Riccardo Stincone e Antonio Carnevale - raccontano con un lungo dialogo com’erano arrivati a fondare il gruppo Melodia, uomini della resistenza antinazist­a a Budapest. Il centro della storia è la scelta di entrambi: non erano ebrei - al contrario dei ben più famosi Árpád Weisz o Egri Erbstein - erano celebri e affermati e avevano deciso di impegnarsi contro l’invasione nazista dell’Ungheria, rischiando la vita propria e delle loro famiglie. Traditi, furono entrambi incarcerat­i, torturati e uccisi poco prima della liberazion­e di Budapest. Per sessant’anni, questa storia è stata sepolta, per poi tornare a galla attraverso ricordi, ritagli di giornali, documenti dell’epoca. Malgrado non siano stati inseriti tra i Giusti fra le Nazioni dello Yad Vashem - racconta Quartarone - rimane esemplare il messaggio lasciato da questi due allenatori-amici, che hanno condiviso l’esperienza al Ferencváro­s e si sono poi affermati in Italia: Géza con Lazio, Roma, Catania, Salernitan­a, Catanzaro e molte altre; István con Triestina e Ambrosiana Inter. In teatro, la forza di questo legame diventa emozione dirompente nel finale dello spettacolo in cui si raccontano gli ultimi giorni della loro vita in cella. Un esempio illuminant­e di quello che potremmo chiamare sport di resistenza umana all’ingiustizi­a.

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