Trentalange, la Figc e la responsabilità
Caro Direttore, ho sperato in questi giorni (ahimé invano) che almeno nel calcio la storia potesse scuotere le coscienze. E facesse prevalere l’interesse generale di rappresentanza e di prestigio di una categoria particolarmente delicata, come quella degli arbitri, rispetto alle posizioni personali. E invece -fermo restando il sacrosanto principio della presunzione di innocenza per chiunque- nel caso dell’Associazione italiana arbitri (AIA), la storia non insegna nulla sul piano dello stile e della responsabilità.
Le vicende dell’AIA, con la bufera del caso D’Onofrio, stanno provocando un danno di immagine devastante per il calcio italiano, anche a livello internazionale: il procuratore capo degli arbitri arrestato per la seconda volta perché coinvolto in un traffico di droga; nominato sulla base di una semplice certificazione di integrità mentre era ai domiciliari per la prima condanna; in giro a consegnare la “roba” durante il lockdown, protetto da una divisa abusiva di medico militare; gratificato con il premio Lo Bello come miglior dirigente del 2021. All’AIA non si sono accorti di niente e si ritengono vittime di un tradimento.
Per un vecchio dirigente federale come me, allo sconcerto e allo stupore si unisce un senso di pesante avvilimento. Penso alle migliaia di arbitri che ogni settimana vanno in campo: i più famosi, tutelati e garantiti nei grandi stadi della Serie A e in tutto il settore professionistico, ma soprattutto le migliaia di ragazzi che per una divisa e i soldi della benzina mettono la loro passione al servizio dei Campionati della Lega Nazionale Dilettanti, circa 10mila partite a settimana, sfidando la proverbiale impopolarità del ruolo e spesso anche l’incolumità personale.
Saranno gli sviluppi delle indagini giudiziarie e i documenti della magistratura a chiarire fino in fondo l’inquietante “caso D’Onofrio”. Per ora, la Figc ha fatto quello che poteva fare sulla base dello Statuto, dei regolamenti e delle norme federali: cancellare la giustizia domestica dell’AIA, denunciando un’incapacità all’autogestione e riportando nella sede federale indagini, deferimenti e sentenze che riguardano gli arbitri. Senza toccare - ovviamente - l’autonomia degli Organi tecnici che continueranno a lavorare in totale indipendenza.
Si è parlato molto di Commissariamento dell’AIA e qualcuno si aspettava che il Consiglio federale di martedì scorso procedesse in questo senso. Nelle condizioni date, non c’erano i presupposti giuridici e normativi, Gabriele Gravina non è uomo che si tiri indietro rispetto a scelte forti e dirompenti.
Ma la storia - e torniamo a bomba - nel caso dell’AIA non insegna nulla. Per analogia, la mia esperienza federale mi riporta al 2006, allo scandalo di Calciopoli e alle dimissioni di Franco
Carraro da presidente della Federcalcio, eletto dalle componenti interne. Carraro non aveva responsabilità dirette e personali in quella vicenda altrettanto devastante (e dalle indagini su Calciopoli è uscito indenne, assolto con formula piena in tutte le sedi processuali).
Da n.1 del calcio italiano sentì però il dovere di fare un passo indietro, avvertendo il peso di una “responsabilità politica”, come lui stesso motivò la decisione di dimettersi. Ti ringrazio dell’ospitalità,
Antonello Valentini ex direttore generale
della Figc
(Ivan Zazzaroni) Caro Antonello, condivido tutta la prima parte del tuo intervento, ho scritto le stesse cose con chiarezza nei giorni scorsi. Nutro qualche dubbio solo sul finale, ovvero sul fatto che Gravina dovesse dimettersi per “responsabilità indiretta”. Se, come tu spieghi, l’architettura federale è una catena di giurisdizioni domestiche, le une del tutto autonome rispetto alle altre, il presidente non ha alcuna responsabilità politica per ciò che è accaduto. E non ha altro rimedio diverso da quello che ha adottato: azzerare l’autonomia dell’Aia, riportandola sotto la responsabilità della Figc.
Aggiungo che in una fase del nostro calcio complicata come l’attuale, se il presidente avesse lasciato si sarebbe creato un vuoto istituzionale enorme: non voglio nemmeno immaginare chi avrebbe potuto colmarlo in pochi giorni. Capito mi hai?!
Diversa è la posizione del presidente dell’Aia Alfredo Trentalange: lui certamente ha una responsabilità politica della nomina di D’Onofrio. Il procuratore degli arbitri è il giudice dei giudici: anche a prescindere dalla conoscenza dell’indagine penale e della gravità delle accuse, mi chiedo a che titolo un militare conosciuto con l’appellativo di Rambo, che non è propriamente né un arbitro dal passato glorioso, né un giurista, venga incaricato a un magistero così alto.
Sono curioso di verificare come andrà a finire questa orribile storia e mi piacerebbe sapere chi ha suggerito a Trentalange di puntare su Rambo: faccio fatica a credere che questo pasticcio sia interamente farina del suo sacco.
Sto ricevendo a posteriori telefonate di chi ha subìto alcune delle decisioni del procuratore: il mondo arbitrale è omertoso, il coraggio lo riserva quasi esclusivamente al campo. La categoria non si è ancora resa conto del danno provocato dallo scandalo: ne ha minato ulteriormente la credibilità. Ho la sensazione, caro Antonello, che si auguri - comme d’habitude - che passi anche questa nuttata. L’alba troverà altri volti.