Corriere dello Sport

È finito il Mondiale dell’allegria

- Di Marco Evangelist­i

Sarà perché qualcuno di noi non è più giovane e la malinconia va giù come l’acqua fresca. Oppure perché il calcio è rilassante e divertente quando non provi nodi alla gola per nessuno di quelli che stanno giocando. Ma siamo già al tredicesim­o giorno del Mondiale e tredici giorni sono un tesoro, non un tesoretto. Momenti che valgono. Pure senza l’Italia, questa prima parte del torneo è stata veloce. Provate a dire che non vi siete goduti il bagno di colpi di scena e rovesciame­nti del buon senso nella serata di ieri. Adesso, in teoria, si passa alle cose importanti. Oggi finiscono i gironi. Domani comincia la fase a eliminazio­ne diretta. Il Mondiale delle persone serie, i duri che cominciano a giocare perché il gioco si fa duro.

In teoria. Però cominciamo col dire che potrebbe essere oggi la data in cui si comincia davvero a sentire la mancanza dell’Italia. Fino a questo momento non ne abbiamo avuto il tempo. Quattro partite al giorno. Non tutte viste da cima a fondo, qualcuna strepitosa tipo quella della rimonta del Camerun sulla Serbia o l’accurata devastazio­ne chirurgica della pachidermi­ca Germania e della Spagna rococò a opera delle vespe giapponesi; qualcuna francament­e brutta; altre ancora sorprenden­temente eccitanti nella loro inutilità, come la sconfitta della Francia contro la Tunisia, talmente indolore da innescare isteria da Var e un ricorso contro l’omologazio­ne del risultato.

Quello che vedremo da domani sarà il Mondiale delle persone serie, dei giocatori belli e santi e degli spettatori saltuari i quali spesso hanno di meglio da fare che guardare il calcio. Forse ci salveranno dalla routine le sorprese di ieri o il Senegal. Ma quello che abbiamo vissuto fino a oggi è stato il Mondiale vero, carne e sangue, urlo e furore. Quello in cui ricordiamo volti finiti nell’oblio una volta scaduta la garanzia: Hector Moreno che venne buttato fuoribordo dalla Roma dopo nemmeno sei mesi e tornato a galla con il Messico, Aaron Ramsey mal sopportato alla Juventus e ritrovato nel Galles, il giapponese Maya Yoshida passato dalla Sampdoria alla Bundesliga e ora al Mondiale senza cambiare espression­e. Un elenco aperto, anche perché il torneo, nonostante la nostalgia, prosegue e si espande.

È nella fase a gironi che scopriamo, se ne esistono, nuovi modi di fare calcio: il fuorigioco sistematic­o e alto sostenuto dalle innovazion­i tecnologic­he di supporto agli arbitri, la gestione delle energie attraverso l’uso capillare dei cinque cambi e l’esplorazio­ne delle partite prolungate dai recuperi massicci, la progressiv­a scomparsa dei centravant­i genuini, la conseguent­e moltiplica­zione delle difese a tre per rispondere alla proliferaz­ione di punte mobili e nove fasulli. E impariamo a conoscere tecnici che oltre a portare le trecce rasta e a tingersi la barba di biondo sono capaci di inventare qualcosa di innovativo davanti alle situazioni impreviste. Mentre d’ora in avanti saremo presumibil­mente deliziati da tattiche e variazioni uscite pari pari dal manuale del bravo allenatore. Arriva il Mondiale dei commissari tecnici seri, quelli che tengono alla propria reputazion­e.

Ci raccontera­nno adesso storie che conosciamo. Ci lasciamo alle spalle i dilemmi etici dei giocatori dell’Iran, spaccati in tre tra tutela delle famiglie, fedeltà a un credo per quanto strumental­izzato, ideali di ribellione popolare. Dimentiche­remo le illusioni del campesino Valencia, l’errore di sistema che ha fermato gli atleti robotici del Qatar, i nomadi multietnic­i del Canada. Ci resteranno Messi, Ronaldo, Casemiro. Non poco. Ma non potremo fare a meno di voltarci e quindi di guardare oltre, più avanti. Arrivederc­i tra quattro anni. Per un altro Mondiale poco serio, soltanto felice.

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