Casalone: «Io per Pozzecco non sono la coperta di Linus»
Assistente in Nazionale, è diventato famoso per i tanti time-out tenuti al posto del suo c.t. e grande amico. Ma... «I ruoli sono ben definiti: lui è l’head coach, io sono la sua estensione, qualcosa di complementare. Non certo uno che serve a rassicurare
Nella Nazionale maschile, accanto a Gianmarco Pozzecco, c'è un suo alter ego. Si chiama Edoardo Casalone, è il suo vice. Da quando le loro strade si sono incrociate a Sassari, i due sono, professionalmente, inseparabili.
Casalone, ricorda il suo primo incontro con Pozzecco?
«Mi aveva chiamato Esposito, era la stagione 2018-2019, per essere il suo assistente a Sassari. A metà stagione Enzo ha rassegnato le dimissioni ed è arrivato quel ciclone del Poz. Ricordo che la prima volta che ci siamo parlati è stato a cena, dopo la sua presentazione. Dovevamo partire per le Final Four di Coppa Italia a Firenze. Ci siamo “annusati” e piaciuti. Un periodo di assestamento ed è scoppiato il feeling che ci lega».
Lei però di Pozzecco ha anche un altro ricordo. Da giocatore, giusto?
«Ero, da semplice spettatore, sulle tribune di Oaka, ad Atene, per i quarti di finale delle Olimpiadi del 2004. Era il 26 agosto. Lui in campo, Recalcati in panchina e io a tifare per l'Italia. Vincemmo e arrivò poi l'argento».
Immaginava che un giorno si sarebbe seduto lei sulla panchina azzurra, come vice-allenatore? «Nemmeno lontanamente. Quando è arrivata la telefonata ho detto sì, come avrebbe fatto chiunque. Poi, una volta messa giù la cornetta, mi sono detto: “E’ uno scherzo”. Fino a quando non ho letto il comunicato ufficiale ho fatto fatica a crederci: io in Nazionale, un sogno».
E’ lei la coperta di Linus di Pozzecco?
«Ah, ah! No, anche senza di me sarebbe sempre lo stesso. Io sono consapevole del mio ruolo e cerco di dare ciò che mi viene chiesto. Diciamo che più che la coperta di Linus, che serve a rassicurare, sono la sua estensione, qualcosa di complementare».
E lei senza il Poz cosa sarebbe?
«Un allenatore da libro stampato, di quelli un po’ troppo precisini. Conoscerlo e condividere questo percorso con lui, da Sassari ad oggi, mi ha dato la capacità di capire che non esiste, nel nostro sport, qualcosa di assolutamente intoccabile. Molte cose vanno interpretate e poi messe in atto, magari cambiate rispetto a come le si interpretavano prima. Poz è stato giocatore e sa che ogni tanto le briglie ai purosangue vanno sciolte. Gianmarco ha allargato e accresciuto la mia visione del basket».
Perché da giovane si è avvicinato alla pallacanestro?
«Ero ragazzino, a Casale. La Junior era un laboratorio in espansione dove si crescevano giovani talenti. Ero scarso, inutile negarlo, così già a 12 anni mi indirizzai sull'allenare. Facevo l'assistente ai gruppi di minibasket. Formavano, in quel club, anche gli allenatori. Passo dopo passo hanno deciso di puntare su di me».
Altrimenti cosa avrebbe fatto nella vita?
«Di certo sarei rimasto nello sport. Per questo ho fatto Scienze Motorie».
Ricorda la sua prima volta da capo allenatore?
«Si, certo, la prima espulsione di Pozzecco. Era il primo anno, giocavamo in casa contro Brescia. Faticavamo, eravamo sotto, aveva già preso tecnico. Protesta ed arriva il secondo. L'arbitro
alza i due pugni e lo caccia. Resto, paralizzato in panchina. "Tocca a te" mi dice il dirigente accompagnatore che mi è seduto accanto. In fretta la mente si snebbia, prendo in mano la squadra e vinciamo».
Da allora percorso netto. Nove espulsioni del coach e nove successi per il vice subentrato, vero?
«Otto con la Dinamo, la nona con la vittoria fantastica agli Europei contro la Serbia di questa estate. In questo caso l'emozione è stata la stessa della prima volta, le responsabilità invece gigantesche. Ho affrontato la cosa con senso di responsabilità e i ragazzi in campo mi hanno aiutato. Una vittoria storica. Mi ricordo i complimenti di Pesic, un santone, al suono della sirena».
Casalone, i tifosi l’hanno vista spesso tenere i time out al posto del Poz. Insomma, ma chi è il vero ct? «A parte il fatto che io ho la barba e lui no, nessuno ci ha mai confusi e mi ha chiamato signor Pozzecco. Si offenderebbe lui e soprattutto sua moglie Tania. A parte gli scherzi, i ruoli sono ben definiti. La gerarchia è chiara: c’è un capo allenatore e uno staff che deve portare il suo contributo».
Cosa ricorda invece del time out per costruire il tiro finale contro la Francia nei quarti?
«Ho parlato io, ma solo per confermare che avremmo giocato un’azione pensata da Poz in allenamento e che è anche riuscita. Con Fontecchio abbiamo preso un tiro da un metro e mezzo che è ballato sul ferro ed è uscito: una disdetta».
Del Poz restano storiche le camice strappate. Lo ha fatto anche lei?
«Ma scherziamo, con quello che costano! Lui è così. E' vero che l'ultima volta, quando Sassari ha vinto in Europa, ha stracciato una camicia da 300 euro. Se lo può permettere".
«Gianmarco ha allargato e accresciuto la mia visione del basket»
«Non straccio camicie da 300 euro: lui se lo può permettere!»
Cosa le dirà Gianmarco quando leggerà questa intervista?
"Com’è quella parolaccia?... Beep!».