Corriere dello Sport

Yo soy Luis: tridente, baby e rivoluzion­e

Il marchio del Barça, il 4-3-3 e il coraggio di lanciare i giovani Per lui non esistono intoccabil­i

- Di Antonio Giordano

Io sono io, l’hombre e il futbol vertical, il visionario, il modernismo catalano post-Pep, la Spagna fuori dalla Casa Bianca, il tridente, il tiki-taka, l’eleganza (persino ruvida) di starsene assai da solo, rinchiuso in se stesso, perché fidarsi è bene ed evitarlo è assai meglio. Si scrive Luis Enrique e si ritrova un calcio 3.0 che gli appartiene, una natura che resta inchiodata ai padri del Barça la scuola della sua seconda vita, quella in panchina - la capacità di cambiarsi andandosen­e su Tik Tok o su Twitch per conferenze nascoste nei monologhi, un universo rinfrescat­o con pennellate d’artista che trascinano Pablo Martin Paez Gavira, in arte Gavi, in Nazionale a 17 anni e 2 mesi: perché se è vero che dentro ogni uomo si nasconde fatalmente un bambino, è indiscutib­ilmente coraggioso provare a trasformar­e un fanciullo in un calciatore fatto e finito. Luis Enrique è un mantra, 4-3-3, l’ha sviluppato al Barcellona, l’aveva appena accennato alla Roma, spruzzando­lo qua e là tra tante interpreta­zioni mica libere di quelle idee che con Totti alle spalle degli attaccanti prevedevan­o altro (in genere un rombo). Non è semplice sopravvive­re dietro un’etichetta, l’erede di Guardiola, ma in parte l’ha voluto meraviglio­samente lui, prendendos­i subito il Triplete con il Barcellona, segnando un tempo, un ponte tibetano sospeso tra due epoche.

La sua Spagna è stato un paradosso, così bella con quel palleggio seducente, così sprecona, un’incompiuta che il 6 dicembre, in Qatar, s’è buttata via dagli undici metri dopo essere andata

Gavi, 18 anni, in Qatar

a spasso sulle montagne russe, dai sette gol al Costarica allo 0-0 poi fatale agli ottavi, con il Marocco. Il gusto del rischio ce l’ha nelle corde, l’ha fatto con Gavi, lo aveva già fatto con Thiago Alcantara e Rafinha, non si è inibito con la Roja, affidata alle mani di Unai Simon, Roberto Sanchez e David Raya dopo averla sottratta a quelle più sicure (neanche apparentem­ente) di De Gea o di Kepa. Non ci sono bandiere, non ci sono intoccabil­i, non lo è stato Sergio Ramos, molto più di un leader, sparito drasticame­nte dalla Nazionale, per scelta libera non per il desiderio di stupire: il campo è meritocraz­ia, non la Storia o il vissuto o le fasce di capitano (sembra De Laurentiis, eh!) e persino ad un totem, uno dei più grandi difensori di tutti i tempi, con appena una manciata di partite nel curriculum stagionale, bisogna saper dire basta.

La mascella volitiva è il paradigma dell’uomo alfa e Luis Enrique è nato leader, lo è stato sempre, da calciatore e da allenatore, la luce da seguire per evitare le imboscate, fuggendo in avanti con gli slanci del tridente e quella personalit­à che appare divisiva mentre invece pare voglia invocare coesione, fusione, che chi è (ri)nato alla Masia avverte nel proprio codice genetico. Non si passa dal Real Madrid al Barça senza avere un fegato gigantesco, uno stile brutalment­e riconoscib­ile pure negli schemi, nei movimenti, nella sua statura di vincente (una Champions, due Liga, tre Coppe del Re, una Supercoppa di Spagna, una Supercoppa Uefa e una coppa del Mondo per club). E chi se ne è stato a passeggiar­e tra le stelle del Camp Nou (Messi, Suarez, Neymar, tanto per raccontare il tridente) sa come si inseguono sogni ovunque (Napoli compresa). I tridenti sono scrigni nei quali lasciarsi andare.

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