Yo soy Luis: tridente, baby e rivoluzione
Il marchio del Barça, il 4-3-3 e il coraggio di lanciare i giovani Per lui non esistono intoccabili
Io sono io, l’hombre e il futbol vertical, il visionario, il modernismo catalano post-Pep, la Spagna fuori dalla Casa Bianca, il tridente, il tiki-taka, l’eleganza (persino ruvida) di starsene assai da solo, rinchiuso in se stesso, perché fidarsi è bene ed evitarlo è assai meglio. Si scrive Luis Enrique e si ritrova un calcio 3.0 che gli appartiene, una natura che resta inchiodata ai padri del Barça la scuola della sua seconda vita, quella in panchina - la capacità di cambiarsi andandosene su Tik Tok o su Twitch per conferenze nascoste nei monologhi, un universo rinfrescato con pennellate d’artista che trascinano Pablo Martin Paez Gavira, in arte Gavi, in Nazionale a 17 anni e 2 mesi: perché se è vero che dentro ogni uomo si nasconde fatalmente un bambino, è indiscutibilmente coraggioso provare a trasformare un fanciullo in un calciatore fatto e finito. Luis Enrique è un mantra, 4-3-3, l’ha sviluppato al Barcellona, l’aveva appena accennato alla Roma, spruzzandolo qua e là tra tante interpretazioni mica libere di quelle idee che con Totti alle spalle degli attaccanti prevedevano altro (in genere un rombo). Non è semplice sopravvivere dietro un’etichetta, l’erede di Guardiola, ma in parte l’ha voluto meravigliosamente lui, prendendosi subito il Triplete con il Barcellona, segnando un tempo, un ponte tibetano sospeso tra due epoche.
La sua Spagna è stato un paradosso, così bella con quel palleggio seducente, così sprecona, un’incompiuta che il 6 dicembre, in Qatar, s’è buttata via dagli undici metri dopo essere andata
Gavi, 18 anni, in Qatar
a spasso sulle montagne russe, dai sette gol al Costarica allo 0-0 poi fatale agli ottavi, con il Marocco. Il gusto del rischio ce l’ha nelle corde, l’ha fatto con Gavi, lo aveva già fatto con Thiago Alcantara e Rafinha, non si è inibito con la Roja, affidata alle mani di Unai Simon, Roberto Sanchez e David Raya dopo averla sottratta a quelle più sicure (neanche apparentemente) di De Gea o di Kepa. Non ci sono bandiere, non ci sono intoccabili, non lo è stato Sergio Ramos, molto più di un leader, sparito drasticamente dalla Nazionale, per scelta libera non per il desiderio di stupire: il campo è meritocrazia, non la Storia o il vissuto o le fasce di capitano (sembra De Laurentiis, eh!) e persino ad un totem, uno dei più grandi difensori di tutti i tempi, con appena una manciata di partite nel curriculum stagionale, bisogna saper dire basta.
La mascella volitiva è il paradigma dell’uomo alfa e Luis Enrique è nato leader, lo è stato sempre, da calciatore e da allenatore, la luce da seguire per evitare le imboscate, fuggendo in avanti con gli slanci del tridente e quella personalità che appare divisiva mentre invece pare voglia invocare coesione, fusione, che chi è (ri)nato alla Masia avverte nel proprio codice genetico. Non si passa dal Real Madrid al Barça senza avere un fegato gigantesco, uno stile brutalmente riconoscibile pure negli schemi, nei movimenti, nella sua statura di vincente (una Champions, due Liga, tre Coppe del Re, una Supercoppa di Spagna, una Supercoppa Uefa e una coppa del Mondo per club). E chi se ne è stato a passeggiare tra le stelle del Camp Nou (Messi, Suarez, Neymar, tanto per raccontare il tridente) sa come si inseguono sogni ovunque (Napoli compresa). I tridenti sono scrigni nei quali lasciarsi andare.