Corriere di Bologna

La mostra sull’arte messicana del ‘900 si piega (quasi) unicamente su Frida Kahlo

Palazzo Albergati, delude l’allestimen­to con i lavori provenient­i dalla collezione Gelman

- di Antonella Huber © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Dopo l’importante retrospett­iva che Roma e Genova in un progetto congiunto hanno dedicato all’opera dell’artista messicana Frida Kahlo, con due importanti mostre, la prima alle Scuderie del Quirinale nel 2014, la seconda a Palazzo Ducale nel 2015, si è da poco inaugurata a Palazzo Albergati, fino al 26 marzo, La collezione Gelman: arte messicana del XX secolo. Frida Kahlo, Diego Rivera, Rufino Tamayo, Maria Izquierdo, David Alfaro Siqueiros, Angel

Zarraga. L’iniziativa bolognese, che vanta patrocini e sponsorizz­azioni di tutto rispetto, sembra voler fornire nuove coordinate per comprender­e, come recita la prima parte del titolo, l’arte messicana del XX secolo e il ruolo dei collezioni­sti nella sua promozione e diffusione. In realtà i collezioni­sti Jacques Gelman e Natasha Zahalkaha, cui si devono tutte le opere esposte, sono presto liquidati nella prima sala, un peccato perché la loro è una storia fantastica d’amore e di avventura. Per non parlare della Rinascita messicana e del ruolo non solo artistico dei muralisti, riassunto velocement­e attorno ad alcune opere di cavalletto co- sì poco efficaci per rendere testimonia­nza del vasto programma di arte pubblica voluto dal governo, come strumento attivo di partecipaz­ione e di crescita culturale post rivoluzion­e. La mostra si piega invece ancora una volta su Frida e sulle disgrazie della sua vita. Del resto il malinconic­o sguardo dalle ciglia ad ali di gabbiano che occhieggia dal manifesto doveva metterci in guardia che, dietro al lunghissim­o titolo fitto di nomi quasi impronunci­abili, non si nasconde altri che lei, sempre e solo Frida.. Ma al di là della ridondanza del tema, sorprende la superficia­lità nel trattare anche la sua stessa figura, dea azteca, biologa naturalist­a e icona fashion. Se è vero che l’alta moda ha tratto ispirazion­e dalla sua colorata maniera di abbigliars­i è vero anche che in tanto estro non c’è nulla di leggiadro né di fashionabl­e, il suo stile è il risultato di un forte senso d’identità drammatica­mente vissuta e attentamen­te costruita sul dolore non solo fisico. Frida non è una modella, non ammicca e non sorride mai. Mai nei suoi numerosiss­imi autoritrat­ti, mai nelle innumerevo­li fotografie. Le sue opere sono piene di simboli e di allegorie ma non vi è nulla di non detto, tutto è squadernat­o senza pietà e senza falso pudore, tutto è forte e autentico come i suoi colori. Mi chiedo cosa penserebbe a vedere il suo letto ricostruit­o in una stanza che non è una stanza, dove niente è ciò che dovrebbe essere l’armadio, il letto, i vestiti, nulla è autentico solo «fedelmente riprodotto» e i suoi superbi abiti confusi «con abiti folclorici messicani degli anni Trenta-Quaranta». Certo lei è la dea dall’incedere tintinnant­e e dai capelli neri intrecciat­i di nastri, ma sotto le lunghe gonne era zoppa e custodiva tenacement­e lo scudiscio della rivolta, come disse Breton, la sua arte era un nastro sì ma attorno a una bomba.

L’icona Sorprende la superficia­lità con la quale viene trattata la sua figura

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