Corriere di Bologna

Le montagne di Cognetti: lassù la rinascita

L’intervista Il Premio Strega 2017 Paolo Cognetti presenta oggi all’Archiginna­sio il suo «Le otto montagne» «A Milano ho frequentat­o una scuola di cinema, girato documentar­i, poi sono andato via. C’è un’età per tutto»

- di Massimo Marino

Idirupi, le creste alpine, i valloni freddi, i boschi, la scabra prateria in quota, la pietraia, i ruscelli, i ghiacciai. Si svolge in un paesaggio delle Alpi occidental­i, dove le cime sembrano giganti, il romanzo che ha vinto il Premio Strega, Le otto montagne di Paolo Cognetti. Racconta il rapporto tra un padre innamorato delle vette e un figlio nato in città, Pietro. Diventa poi la storia dell’amicizia tra Pietro e Bruno, un ragazzo che custodisce le vacche al pascolo, tra la libertà dei monti.

L’autore lo presenta oggi alle 17.30 nella sala dello Stabat Mater, festeggiat­o dal sindaco Virginio Merola e in dialogo con Alberto Bertoni e Stefano Petrocchi, nell’ambito del nuovo ciclo della rassegna «Le voci dei libri», organizzat­a dall’Istituzion­e

«Ho imparato a scrivere con attenzione ai dettagli alla scuola di Mario Rigoni Stern, un maestro di montagna e di lingua che ho molto letto Da lui ho appreso a usare pochi aggettivi ma i sostantivi giusti, a essere continuame­nte alla ricerca dei nomi delle cose

bibliotech­e del Comune e da Librerie Coop.

Cognetti, lei è nato a Milano e ha vissuto a New York. Come è nata la passione per le montagne?

«Sono andato a vivere in una baita ad alta quota dieci anni fa, riscoprend­o un luogo che appartenev­a alla mia infanzia. Vi ero legato, ma l’avevo dimenticat­o. C’è un’età per tutto. A venti-trenta anni devi vivere la città o la metropoli, come ho fatto io; poi l’avanzare del tempo ti riconcilia con i posti più profondame­nte tuoi».

Nel 2009 la rivista «Lo straniero» le assegnava un premio con una motivazion­e che la indicava come uno scrittore capace di interpreta­re le delusioni della gioventù di questi anni. C’entra la delusione con la scelta di abbandonar­e la città?

«Senz’altro. E non sono stato l’unico a trasferirm­i in montagna. C’è un piccolo fenomeno di ritorno a luoghi in precedenza abbandonat­i, che si cerca di far rinascere con varie attività. Ci chiamano i “nuovi montanari”…».

Quali attese ha tradito la città?

«Faccio parte di una generazion­e cresciuta nella crisi economica. I nostri genitori erano immigrati a Milano in cerca di lavoro, e lo avevano trovato. Oggi sembra che le promesse siano state disattese, la recessione induce una crisi dei valori precedenti. A Milano ho frequentat­o una scuola di cinema, ho girato documentar­i, mi sono impegnato in un centro sociale. Poi me ne sono andato».

Che cosa ha trovato tra le vette?

«All’inizio la solitudine e una grande vicinanza a un mondo selvatico, che mi riempie ancora di sensazioni. Poi, a poco a poco, sono nate nuove relazioni, non più in senso orizzontal­e, diffuso, ma verticale, in profondità. È iniziata una ricostruzi­one mia e la ricostruzi­one di un luogo abbandonat­o. È stato un ripartire da zero».

Come si connettono le relazioni del romanzo, quella tra padre e figlio, e quella tra i due ragazzi?

«Sono due rapporti maschili. Assistiamo inizialmen­te a una educazione alla montagna e alla solitudine di Pietro, un’istruzione a essere uomo, come lo intende il padre. L’amicizia diventa un antidoto, la costruzion­e di un legame diverso, una scoperta della condivisio­ne».

Che importanza gioca in ciò la natura?

«Non amo il termine “natura”: lo usano solo i cittadini. In montagna non hai intorno “la natura”, ma un bosco, un torrente, un dirupo…».

Qualcuno ha notato la sua grande precisione terminolog­ica e lo splendore del suo italiano, classico.

«Ho imparato a scrivere con attenzione ai dettagli alla scuola di Mario Rigoni Stern, un maestro di montagna e di lingua che ho molto letto. Da lui ho appreso a usare pochi aggettivi ma i sostantivi giusti, a essere continuame­nte alla ricerca dei nomi delle cose». Lo ha conosciuto? «No, è stato un maestro ideale. Lui moriva quando io mi sono ritirato nella baita. Mi è sembrato un fatto simbolico».

Altri autori ai quali deve qualcosa?

«Per anni e anni ho letto scrittori americani, Carver, Hemingway, Salinger… In età più avanzata sono tornato agli autori italiani». Henry David Thoreau? «Lo conosco bene. Ho scritto un’introduzio­ne a Walden. La vita dei boschi. È un modello per me».

Cosa pensa dell’ansia per i social network, lei che si dice scriva a mano?

«Mi preoccupa, mi dà fastidio, mi sembra un modo di agire vuoto. Cerco di starne fuori. Non ho la tv. Scrivo a penna. La mattina la prima cosa che faccio è accendere il fuoco. Mi sembrerebb­e strano aprire il computer. D’altra parte è una forma di rifiuto: sono cresciuto in un appartamen­to, davanti allo schermo televisivo. Per me è un piacere vedere un albero o aprire un quaderno». Che ne pensa dei No Tav? «Mi sento vicino a loro; ho partecipat­o al loro festival. I montanari cercano di difendere le valli dai cittadini. Ma ci sono anche cittadini che cercano di difendere le valli da montanari che vorrebbero spianarle per fare piste di sci».

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