Due auto gratis per allentare i controlli fiscale Quattro anni al generale
Abusò della sua carica di generale della Guardia di Finanza per farsi prestare due automobili da un concessionario sui cui pendevano due verifiche fiscali. Con quest’accusa ieri il collegio presieduto dal giudice Stefano Scati, ha condannato a quattro anni di reclusione l’ex comandante regionale della Guardia di Finanza dell’EmiliaRomagna Domenico Minervini. Una sentenza che ha lasciato di sasso l’imputato e che va oltre le richieste dell’accusa. La pm Michela Guidi aveva chiesto una pena di 3 anni e 9 mesi per il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità. La corte ha riqualificato le imputazioni in corruzione per una delle due auto e riconosciuto l’induzione indebita per la Volkswagen poi acquistata dal generale. Tra il 2009 e il 2012 Minervini guidò il corpo delle Fiamme gialle di tutta la regione e in quella veste si presentò nel 2010 da un noto concessionario Audi e Volkswagen per valutare l’acquisto di un’auto. Ma in realtà le due auto, un’Audi A6 e una Tuareg, gli vennero fornite senza sborsare un euro dall’imprenditore che, sottoposto a due grosse verifiche fiscali proprio dalle Fiamme Gialle, sperava così di ottenere favori dall’alto ufficiale. Solo la Tuareg, dopo due anni di comodato gratuito, fu acquistata dal generale nel 2012. Le verifiche fiscali si conclusero per l’imprenditore, assolto per lo stesso reato, con una multa di 600.000 euro, cifra al di sotto della soglia di rilevanza penale. Per l’accusa Minervini, che con il legale che lo assiste Lorenzo Valgimigli ha sempre sostenuto di aver saputo solo dopo delle verifiche in corso, chiese anche all’imprenditore se il comportamento dei suoi sottoposti fosse stato corretto quando un giorno, arrivato in concessionaria, ci trovò la pattuglia della Guardia di Finanza. Un interesse che per la pm Guidi dimostra che Minervini «ha abusato della sua qualità di pubblico ufficiale per avere un indebito favore. La divisa è stata un fattore determinante — ha detto in aula il magistrato —, lo stesso imprenditore ha ammesso “se fosse stato un salumiere non gli avrei concesso quei favori”». Una ricostruzione del tutto opposta è stata fornita dall’imputato, oggi in pensione, e dal suo difensore: la soggezione alla divisa sarebbe stata un fatto personale che portò l’imprenditore a dimostrare la sua stima offrendo favori al generale che però li accettò. Una scelta moralmente discutibile che per la difesa non ha rilevanza penale: «Il volersi tenere buona una persona non può essere elemento costitutivo del reato» ha detto l’avvocato Valgimigli nell’arringa finale e dopo la lettura della sentenza ha espresso «stupore per un esito non giustificato dalle risultanze istruttorie» annunciando battaglia in Appello.