Demm stile Saeco: l’Appennino si mobilita
Negozi chiusi e manifestazione per i 206 posti a rischio
Negozi chiusi, serrande abbassate e tutti in piazza per difendere la Demm e i 206 posti di lavoro a rischio. E anche la Regione dice di essere pronta a fare la sua parte: «Ma serve un investitore».
«Porretta è la Demm, la Demm è Porretta. Da altre parti non si va». Davide Giacobazzi urla nel microfono, davanti a centinaia di persone radunate in piazza Garibaldi, nel cuore della capitale dell’Appennino. Lo ascoltano i suoi colleghi, 206 dipendenti in cassa integrazione da due anni. Ma con loro c’è tutto un mondo, stretto intorno alla Fiat dell’Appennino che ora rischia di saltare, colpo di coda della crisi del gruppo Paritel. Negozianti con le serrande abbassate, cartelli appesi alle vetrine e lacrime gli occhi. Figli e parenti, studenti delle superiori che non vorrebbero andarsene. Pensionati usciti dalla fabbrica oltre quarant’anni fa. Le lavoratrici della Saeco che nel 2015 scioperarono a Gaggio Montano.
Metalmeccanici della pianura: da quelli della Selcom, che nell’autunno del 2016 temettero la chiusura dell’azienda, agli operai della Motori Minarelli, alla quarta procedura di mobilità in meno di dieci anni. Ci sono anche i lavoratori delle aziende-modello. «Chi è venuto a marciare qui ha imparato a lavorare in Demm». Sembrano passati secoli, ma non è così. Mario D’Isanti entrò in azienda nel 1995: «Venni da Napoli con mia sorella. Rifiutai diversi lavori, prima di entrare in Demm. Ora ho una moglie precaria e due figli, sto pensando di andarmene. Anche all’estero». Marta ha 19 anni e una tuta blu che non è sua: «Sono figlia di operai, i miei genitori lavorano lì. Mi sono iscritta a un corso per lavorare in banca. Non trovavo la mia facoltà e non volevo gravare sul bilancio ora. I giovani per avere un futuro non possono stare qui, questo paese sta andando in malora. Doversi allontanare da casa perché non ci sono le condizioni per lavorare è degradante». Hanno qualche anno in meno i ragazzi del liceo Montessori-Da Vinci, una trentina: «Ci sono i nostri genitori e i nostri amici lì dentro. Fabbriche che prima accoglievano i ragazzi ora faticano a creare lavoro — raccontano Romeo e Giorgia, i rappresentanti d’istituto —. Noi vorremmo restare, siamo qui anche per questo». Dal secondo piano del suo appartamento, Gianfranco guarda il serpentone che si snoda lungo dalla fabbrica al campanile. Scuote la testa: «Ci ho lavorato sedici anni in Daldi, sono entrato nel ’52. Eravamo in 1.300. Mio padre c’è stato quarant’anni. Esportavamo in tutto il mondo. Mi fa molto male questa cosa».
Dalla Demm dipende l’economia del territorio. Lo sa Emanuela, che aveva il padre caporeparto in fabbrica e ora lavora in cartoleria: «Ci sono famiglie che faticano a pagare libri e mensa. Essere solidali è una questione di coscienza, questa era la nostra Fiat». C’è la politica. L’assessore regionale ai Trasporti Raffaele Donini promette che viale Aldo Moro farà fretta al governo per sbloccare il rinnovo della cassa integrazione: «Qui serve un acquirente industriale, non avventurieri. Noi possiamo garantire impegni sugli investimenti infrastrutturali». Igor Taruffi di Sinistra Italiana chiede al governo di «trovare una soluzione anche forzando un po’ le regole». Il segretario regionale della Fiom Bruno Papignani invita a fare presto: «I tempi della politica non sono quelli del pane, non si può continuare così. C’è un commissario straordinario che l’ha presa troppo sottogamba».
La manifestazione, se non altro, è riuscita: «Cercavamo solidarietà e l’abbiamo trovata, adesso dobbiamo arrivare al risultato», commenta Amos Vezzali delle tute blu Cgil. Perché il prezzo da pagare potrebbe essere drammatico. Lo sa Marino Mazzini della Fim, che ha iniziato lavorando in Demm: «Rischiamo di perdere una scuola di vita». Si parla di due possibili acquirenti, uno italiano e uno straniero. Ma il tempo stringe: la Daldi va salvata entro luglio 2018.