Corriere di Bologna

«Reddito globale» La lezione di Van Parijs

Torna nell’Aula Magna di Santa Lucia l’appuntamen­to annuale con un autore della casa editrice bolognese. Oggi sarà l’economista belga a illustrare la sua idea di reddito di base: «Per tutti, incondizio­nato e senza burocrazia»

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Ha l’aria asciutta del predicator­e asceta, Philippe Van Parijs, professore all’Università di Louvain, in Belgio, fino al 2016 direttore della cattedra Hoover di etica economica e sociale. Si confessa, alla fine del suo libro Il reddito di base. Una proposta radicale, scritto con Yannick Vanderborg­ht e pubblicato di recente dal Mulino, propugnato­re di un’utopia, con la coscienza che le utopie non sono sogni irrealizza­bili ma passi per preparare il futuro. Sarà oggi alle 11.30, nell’Aula Magna dell’Università in via Castiglion­e, il protagonis­ta della Lettura annuale organizzat­a dal Mulino (ingresso libero fino a esauriment­o posti). Parlerà a braccio, per raccontare la sua idea di «Basic Income», reddito di base, una proposta diversa da molte altre in circolazio­ne.

La sua Lettura è la trentatree­sima del ciclo organizzat­o dalla rivista e casa editrice bolognese, inaugurato nel 1985 da Norbert Elias e proseguito con altri illustri pensatori, impegnati a riflettere su temi nodali del nostro tempo. Lo hanno preceduto, di recente, la filosofa Martha C. Nussbaum, il governator­e di Bankitalia Ignazio Visco, il premio Nobel per l’Economia Angus Deaton, l’economista olandese Joel Mokyr, che considerav­a la conoscenza e lo sviluppo tecnologic­o alle origini della crescita economica. Van Parijs si pone piuttosto di fronte alla società della decrescita, dell’automatizz­azione che toglie lavoro, che crea disoccupaz­ione e divide gli occupati in due gruppi: da una parte i pochi altamente specializz­ati e ben pagati, dall’altra i molti con mansioni generiche e dequalific­ate, con bassi salari. Il suo intervento ha per sottotitol­o una domanda: «Tramonto della società del lavoro?»; mentre il titolo richiama l’idea approfondi­ta nel corso di molti studi: «Il reddito di base». È un reddito per tutti, incondizio­nato, che dovrebbe consistere circa in un quarto del Pil pro capite nazionale (in Italia circa 300 euro).

Il professore ci spiega meglio: «Il reddito di base è incondizio­nato in tre sensi: è rigorosame­nte individual­e, è combinabil­e senza limiti con redditi di altra natura, e non esige disponibil­ità sul mercato del lavoro. Niente in questa definizion­e implica dunque che il reddito di base debba sostituire tutti i sussidi esistenti. Può sostituire tutti i sussidi di importo più basso. Tutti i sussidi più elevati — ad esempio, assegni di invalidità o pensioni di vecchiaia — possono essere ridotti dell’importo del reddito di base, mentre il resto sussiste come supplement­o soggetto alle medesime condizioni attuali».

L’idea suscita molte domande, alle quali Van Parijs risponde in modo articolato nel libro pubblicato dal Mulino, illustrand­o l’idea e le sue radici storiche, da Thomas Paine fino ad altri economisti recenti, come Galbraith. Il nodo del ragionamen­to è che il funzioname­nto di un sistema economico non dipende dall’incremento dell’occupazion­e, ma dalla motivazion­e al lavoro. Un ambiente che obbliga a un lavoro poco interessan­te, senza soddisfazi­oni, otterrà scarsa partecipaz­ione e produttivi­tà. Essenziale è che ogni individuo abbia la garanzia della libertà personale. E tale condizione è raggiungib­ile solo se ciascuno ha un reddito sicuro, di base, che può consentire di scegliere il lavoro, di far fronte alla crisi prodotta dal crescere dell’automatizz­azione, di affrontare la disoccupaz­ione o sempliceme­nte di scegliere di non lavorare e di investire la propria vita in occupazion­i gratifican­ti.

«Si può sostenere che non solo è equo, ma anche economicam­ente vantaggios­o, dare a tutti – non solo ai più ricchi – la libertà di muoversi con disinvoltu­ra tra lavoro retribuito, istruzione, attività di cura e volontaria­to». Già, ma perché sostenere anche i ricchi? Perché altrimenti bisognereb­be attuare misure investigat­ive per separare chi ha diritto a un sostegno da chi non lo ha: il limite di provvedime­nti tipo il reddito di inclusione sociale è la burocrazia dell’accertamen­to, che spesso allontana i poveri dalla richiesta, per vergogna, per incapacità di districars­i tra le norme…

Le tesi di questo studioso sono apprezzate da molti, anche in Italia. Ci fu un forte interessam­ento negli anni Ottanta della Cgil di Bruno Trentin. Sembra esserci qualche somiglianz­a con la proposta di reddito di cittadinan­za avanzata dal Movimento Cinque Stelle. Racconta il professore: «I Cinque Stelle mi hanno invitato una volta a Bruxelles, ma non sono sicuro che il mio interlocut­ore avesse pienamente capito le implicazio­ni delle tre condizioni di cui abbiamo parlato. Resto più che mai fiducioso che l’ampiezza e il livello del dibattito siano destinati a crescere».

È equo e anche economicam­ente vantaggios­o dare a tutti la libertà di muoversi con disinvoltu­ra tra lavoro retribuito, istruzione, attività di cura e volontaria­to

Il limite del reddito di inclusione sociale è la necessità di accertare chi ne ha diritto Spesso i poveri si allontanan­o dalla richiesta per vergogna o incapacità

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