«Una visione globale dentro spazi-scrigni»
François Hébel, da 40 anni protagonista del mondo della fotografia e dal 2013 direttore artistico di «Foto/Industria», racconta il festival e racconta se stesso: «Da ragazzo suonavo le canzoni di Leonard Cohen. Oggi vivo tra Parigi e tanti aeroporti»
Ogni volta che fa una delle sue affollatissime presentazioni pubbliche, sempre in bilico fra la profondità della lezione illuminante e la leggerezza del divertissement, aggiunge sempre e comunque un tassello alla storia del fotografo e delle immagini che sta raccontando. Ma non lo fa mica in maniera premeditata, come potrebbe accadere in un coup de théâtre. È che, molto semplicemente, i suoi ricordi, le sue conoscenze, le sue esperienze, le sue frequentazioni, il suo sguardo (ha saputo vedere molto spesso prima quello che gli altri hanno visto soltanto dopo, perché guardavano senza vedere) sono talmente numerosi e variegati che è normale che ogni volta il racconto sia diverso e più ricco di quello precedente. Non «scaletta» le cose da dire. Le improvvisa, come un jazzista. E con una passione, un entusiasmo, una dedizione e una devozione rare da riscontrare in chi, come lui, si occupa di una materia da così tanti anni. Certo, François Hébel, francese classe 1958, per i bolognesi è sopratutto il direttore artistico (dal 2013) della Biennale di Foto/Industria della Fondazione Mast di Isabella Seràgnoli (le mostre sono visitabili fino al 19 novembre, www.fotoinudstria.it. Domani alle 18.30 al Mast Hébel incontrerà il fotografo Michele Borzoni, che ha dato una nuova lettura del lavoro come è oggi), ma è da quasi quarant’anni nel mondo dell’immagine, in veste di produttore, curatore di mostre, iniziative divulgative legate al mondo della fotografia. Ha diretto per sedici anni il festival Les Rencontres d’Arles, fra il 1986 e il 2014, è stato co-fondatore di Photo Spring a Pechino (2010), vice presidente dell’agenzia Corbis (2000-2001), direttore di Magnum Photos Paris e International (19872000) e direttore delle gallerie dei negozi Fnac (1983-1985). Fra le attività più recenti, ricordiamo inoltre la nomina a direttore artistico del Mois de la Photo du Grand Paris (dal 2017), e, due anni prima per lo stesso ruolo, nella Galleria Fiaf dell’Institut français/Alliance e altro ruolo primario nella Fondazione Henri CartierBresson. Lo incontriamo, dopo una delle sue presentazioni pubbliche, in un rinomato bar di Bologna, tra tartine rinsecchite, una spremuta d’arancia e un Campari shakerato tutt’altro che memorabile.
Hébel, ma secondo lei perché così tanto successo per un genere, quello della fotografia industriale, non certo «immediato»?
«Era un genere che prima non interessava quasi nessuno, ma soltanto perché non era stato analizzato a fondo. Non è solo una fotografia caricata, ma, tra le tante cose, può diventare per esempio l’orgoglio di una nazione».
Parliamo dei luoghi che avete scelto.
«Molte gallerie in città non erano libere. È stata forse una fortuna, perché poi abbiamo scelto posti pieni di storia. Mi piace definirli con una parola francese, Ecrin, che è la scatola preziosa dove si tengono i gioielli».
Il più bel complimento che le è stato fatto per Foto/Industria?
«Che Bologna ha una manifestazione internazionale e contemporanea al contempo». E gratuita. «La cultura secondo me dovrebbe avere un suo prezzo. Anche piccolo, ma dovrebbe averlo. La signora Seràgnoli, con la sua generosità, vuole coprire però lei tutti costi della manifestazione». Cosa cerca in un festival? «La possibilità di avere una visione globale. Un bilancio dell’epoca e dello stile fotografico. Le faccio un esempio. I lavori di Jodice sono stati realizzati quando il fotografo aveva la stessa età di Borzoni, altro artista in mostra con le sue opere sul mondo del lavoro. La differenza fra una mostra e un festival è la visione globale, è la possibilità di avere vari punti di vista sullo stesso argomento».
Il lavoro dietro le quinte, l’allestimento delle mostre?
«Da sempre voglio che la prima persona contenta sia l’artista, e gli artisti sono facilmente scontenti».
A lei piace lavorare con fotografi viventi.
«Molti miei colleghi preferiscono i morti. I vivi (ride, ndr) sono molto più esigenti. Ma li capisco: è una scelta dura essere artisti».
Cosa ha imparato da loro?
«Tutto. O quasi. Lavoro con la loro angoscia». Angoscia? «L’artista è solo, non sempre fa soldi, a volte gli mancano idee e ha il terrore di non entrare nella storia. Io sono ottimista, quindi mi sono dato il compito anche di rilassare gli artisti».
Lei ha incontrato tutti i grandi fotografi. C’è qualcuno o qualcosa che in tanti anni l’ha colpita profondamente?
«Ci sono stati momenti in cui ho incontrato fotografi e movimenti che mi hanno fatto dire “wow”». Quando? «Nell’86, quando per la prima volta conobbi Nan Goldin. Era sconosciuta, ma ho sentito subito che era un momento speciale per la fotografia. Oppure quando mi avvicinai per la prima volta, nel 2000, alla fotografia cinese. L’arte digitale è cominciata in Cina. Dedicai a loro diversi programmi al festival d’Arles».
E poi, chi altro ha cambiato il suo modo di vedere?
«Passeggiavano nella periferia di Parigi. Era il 2005. C’era un tizio che faceva ritratti sui muri della case. Gli dissi, “vieni a farli ad Arles”». Chi era? «Jr». Qual è stata la scintilla che le ha fatto accendere la passione per la fotografia?
«La molla è stata il viaggio. A 17 anni avevo promesso a me stesso che nella vita avrei viaggiato. E infatti vivo tra Parigi e tanti aeroporti». La sua famiglia? «I miei genitori erano nel mondo del teatro e del giornalismo».
E lei, a parte viaggiare cosa voleva fare? «Suonare la chitarra». Cosa le piaceva? «Leonard Cohen». Quando nasce lei professionalmente?
«Ero assistente di chi faceva le mostre negli otto negozi Fnac. Ero l’unico che parlava inglese, quindi erano costretti a “usarmi” molto spesso. Quando poi il mio capo andò in pensione, presi il suo posto». La fotografia oggi com’è? «Poco selezionata. Bisogna organizzare nuovi filtri, per nuovi fotografi. Il pubblico è confuso. Pensa che Steve McCurry sia un artista». E cos’è? «Un bravo fotografo di National Geographic. Ma non ha inventato nulla».
Foto appese in stanza da letto?
«Non sono un collezionista. In camera da letto ho fotografie di “grande tenerezza”, per niente di charme. Foto di “benessere” fra uomini e donne, come quelle del portoghese Paulo Nozolino, e Mademoiselle Anita di Robert Doisneau».
La fotografia oggi è poco selezionata Bisogna organizzare nuovi filtri, per nuovi fotografi Il pubblico è confuso: pensa che Steve McCurry sia un artista