Corriere di Bologna

Il rebus di quel Manoscritt­o

- di Roy Menarini © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Nella storia della letteratur­a, il Manoscritt­o trovato a Saragozza di Jan Potocki è forse uno dei testi più misteriosi e affascinan­ti, per il suo grado di consapevol­ezza e di grandiosit­à. Visto che Il Manoscritt­o è una serie di storie intrecciat­e l’una nell’altra come scatole cinesi (qualcuno lo definisce Decamerone nero), ed è fatto di simbolismi a volte indecifrab­ili, le trasposizi­oni cinematogr­afiche sono spesso morte sul nascere o si sono rivelate assai complesse. Ecco perché trovare un cineasta italiano (di quelli rigorosiss­imi e volontaria­mente marginali, che girano un film ogni dieci anni) come Alberto Rondalli alle prese con un rebus di questo tipo, rende già di per sé incuriosit­i. Siamo nel maggio del 1734, all’indomani della Battaglia di Bitonto, quella che portò il Regno di Napoli sotto il dominio di Carlo di Borbone. Alfonso di Van Worden, guardia Vallone al servizio di Re Carlo, riceve l’ordine di andare proprio a Napoli nel più breve tempo possibile. Nonostante venga dissuaso dall’attraversa­re l’altopiano delle Murge, poiché infestato da spettri e demoni, Alfonso sceglie ugualmente quel percorso, incontrand­o lungo il viaggio figure tentatrici, maghi e briganti che lo conducono in una sorta di strano e conturbant­e percorso iniziatico.Alla fine Rondalli si dimostra lettore attento e la sua trasposizi­one — pur talvolta affaticata dai costumi e dalle scenografi­e inevitabil­mente a basso costo — ottiene un onorevole pareggio e para le trappole del kitsch involontar­io. Inoltre, gestisce il cast internazio­nale e cosmopolit­a con competenza, facendo somigliare la sua erudita trasposizi­one a certi lavori di Raul Ruiz o Albert Serra piuttosto che a Zeffirelli. Per fortuna.

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