Wolfango o l’arte del disegno
Da venerdì in Sala d’Ercole la mostra sul pittore bolognese scomparso: un centinaio di fogli tra cui 70 mai esposti sui quali, fin da bambino, ha tracciato figure di ogni tipo
Tutto inizia con un foglietto giallo su cui sono disegnate con tratti semplici e divertiti alcune maschere, Pulcinella, Arlecchino, Pinocchio, un diavolo col forcone, una damina… È opera di un bambino di 6 anni. Ancora più sorprendente è un coevo — siamo nel 1932 — tavolo in prospettiva, che farebbe gridare a un Leonardo in erba. L’autore è lo stesso di una mano ritratta parecchi anni dopo, aperta in vertiginoso scorcio contro lo spettatore, tanto che sembra minacciarlo o tenerlo a distanza. È quest’ultima l’immagine del manifesto della mostra «Wolfango disegnatore»: sarà inaugurata venerdì nella Sala d’Ercole di Palazzo d’Accursio e si potrà visitare fino al 21 gennaio (apertura dalle 11 alle 18.30, venerdì 14.30-18.30, domenica e festivi 10-18.30, lunedì riposo). Varie sono le iniziative collaterali, un concerto a inviti della Doctor Dixie Jazz Band il 15 dicembre, la presentazione della biografia del pittore scritta da Eleonora Renda il 16, la produzione (per il 2018) di un dvd da parte della Cineteca.
L’esposizione raccoglie i disegni di una vita di Wolfango, eseguiti con tecniche varie, da quando aveva appena iniziato la scuola al 2011. È un omaggio voluto dalla figlia Alighiera Peretti Poggi a quasi un anno dalla morte del pittore bolognese (16 gennaio 2017). Un centinaio di fogli di varie dimensioni, 70 dei quali mai mostrati al pubblico, ripercorrono tutte le fasi di una creatività fenomenale, attenta alle cose, alle forme, a riprodurre per segni a volte estremamente essenziali, in altri casi carichi fino all’espressionismo, il mondo che ci circonda, quello inanimato, quello delle figure, quello degli affetti.
Wolfango teneva segrete le sue opere, in una ormai ben nota ritrosia. Furono portate alla luce nel 1986 da Eugenio Riccomini, che allestì una mostra di successo a Santa Lucia e convinse il sindaco Imbeni ad acquistare Il cassetto, quadro che ora troneggia nella sala stampa del Comune.
«Wolfango non era un “artista”. Oggi chiunque può definirsi tale, basta comprare una scatola di fagioli, scriverci qualcosa sopra e inviarla alla mostra giusta» commenta, sarcastico, Eugenio Riccomini, autore dell’introduzione al bel catalogo (Minerva edizioni). E continua: «Lui era un pittore, capace di ricostruire un frammento mancante della battaglia tra Costantino e Massenzio di Piero della Francesca o di ritrovare i colori di un Caravaggio perduto da una foto in bianco e nero».
La mostra percorre gli anni di esercizio casalingo con zio Peppino, un parente che gli insegna i fondamentali, in un periodo in cui Wolfango ri- produce caratteri della pittura ottocentesca, spesso ritraendo animali da cortile. «Era sfollato durante la guerra in campagna» racconta la figlia. Tale fase arriva fino al 1945, con risultati straordinari. Ancora Riccomini: «Provate voi a ritrarre un tacchino in movimento, o un topo, che non si mette certo in posa». Lui coglie la vita e la ferma. Tornato a Bologna inizia il periodo morandiano, in cui disegna a china scorci campestri o cittadini, per poi passare a una breve fase informale.
Seguono i disegni preparatori per le illustrazioni di libri, quelle che costituivano la sua attività «mercantile» o «alimentare», come la definiva. Anche qui notevole è la qualità, come nel sofferente, umano protagonista di un libro per ragazzi, Gesù oggi. Ma le opere dal 1986 al 2008 sono le più sorprendenti: rose carnose sul punto di disfarsi, peonie cadenti, noci sgusciate simili a cervelli o a concrezioni minerali, contorti garofani «in controluce», un osso d’anca, un granchio che lentamente emerge dalla sabbia… E poi l’ultima sezione, «Il passato è presente»: un album di immagini di una famiglia, la sua, che non amava le fotografie, figli, la moglie, parenti, amici, ricordi, volti, teatro dei burattini, giochi, sogni… Una vita.
Ha ragione Riccomini: «Wolfango è poco conosciuto fuori Bologna. Meriterebbe di attrarre a New York le stesse folle che Hopper ha richiamato nella nostra città».