Daniele Abbado svela «La mia Tosca crudele»
Daniele Abbado firma la regia dell’ultimo titolo del cartellone lirico del Comunale, che andrà in scena dal 15 dicembre. La partitura «è una macchina raffinata che non lascia scampo. È il dramma di due rivoluzionari che diventano vittime sacrificali». Sul
«Tosca? E’ un’opera crudele». Parola di Daniele Abbado che firma la regia dell’opera di Giacomo Puccini con cui il 15 dicembre si chiude la stagione Lirica 2017 del Teatro Comunale di Bologna.Con le scene e i costumi di Luigi Perego l’allestimento che debutta nella sala del Bibiena arriva dal Giappone e ha fatto tappa l’anno scorso al Teatro Regio di Torino. A Bologna, fino al 23 dicembre sono otto le recite del capolavoro pucciniano ispirato al dramma di Victorien Sardou con un doppio cast che vedrà avvicendarsi in scena i soprani Svetla Vassileva e Jolana Fogašová (Tosca) , i tenori Rudy Park e Diego Torre (Mario Cavaradossi), i baritoni Gabor Bretz e Gevorg Hakobyan (il barone Scarpia) affidati alla bacchetta di Valerio Galli, sul podio dei complessi del Comunale di Bologna e con Andrea Faidutti maestro dei cori.
Abbado, dice che Tosca è un’opera crudele perché alla fine muoiono tutti?
«In effetti dei tre protagonisti non sopravvive nessuno all’epilogo. Tosca è una macchina raffinata e crudele che non lascia scampo. È il dramma di due artisti falciati dalla sopraffazione del potere: un pittore e una cantante. Due rivoluzionari che diventano due vittime sacrificali. Qualcosa del genere succede anche con Madame Butterfly, l’altro titolo pucciniano con cui mi sono finora confrontato».
Una volta le produzioni liriche nascevano in Italia e poi erano portate in Giappone. Per questa Tosca vale il cammino inverso…
«È uno spettacolo nato qualche anno fa su commissione di un grande centro culturale costruito dopo il terremoto di Kobe. Le condizioni erano favorevoli e alla fine ho immaginato uno spettacolo molto essenziale con un dispositivo scenico unitario per i tre atti, per liberarmi dal superfluo. Lo spazio evoca Sant’Andrea della Valle, dove finiscono per confrontarsi e scontrarsi i destini dei personaggi. Una navata di chiesa con un altare che è quasi un’ara sacrificale e dove consumare un’azione violenta dall’epilogo crudele».
«La Tosca di Puccini. Di rado gli eventi si svolgono con tanto orrore, anche a teatro. Qui c’è solo un’azione incalzante il che significa impulsi musicali più brutali», così annotava nel suo diario Paul Klee, il celebre pittore che vide il capolavoro pucciniano proprio a Roma, dove aveva debuttato due anni prima nel 1900. Lei si sente di condividere?
«Sono impressioni in sintonia con una scelta che non indulga al bozzettismo e miri invece ad un’essenzialità che mi fa pensare al teatro orientale o alla crudeltà teorizzata da grandi maestri del teatro del Novecento come Artaud o Genet. Puccini ci catapulta in un contesto le cui uniche verità sono l’angoscia e la sofferenza dei due giovani artisti e dove siamo invitati ad assistere alla loro capitolazione». Ma perché Tosca fa pensare tanto anche al cinema?
«Puccini ne è uno straordinario anticipatore. Non tanto perché scrive musica da film ma nel senso che usa la musica come se fosse una macchina da presa creando primi piani, campi lunghi, piani sequenza». La sua Tosca resta a Roma, ma in quale epoca?
«Nei costumi c’è un rinvio agli anni Venti del secolo scorso e ad un clima dove che anticipa il fascismo. Ma il teatro non si risolve in un semplice gioco di trasposizioni temporali, come capita sovente. Però quasi trent’anni fa, rimasi colpito dall’allestimento di Jonathan Miller che trasportava Tosca negli anni di Roma città aperta…». C’è un’opera che sogna di mettere in scena? «Direi Lulu di Berg. E poi The Rake’s Progress di Stravinskij».
Dunque due capolavori del Novecento. E invece la realtà cosa riserva?
«Macbeth al prossimo Festival Verdi, a Parma. Rigoletto. Un debutto nel teatro barocco con Dido and Aeneas di Purcell». Quale futuro attende il teatro musicale in Italia?
«È grave che la programmazione di un teatro si faccia come se si inseguissero i dati dell’auditel. Quel che mancano sono direttori artistici di rilievo».
Sarà vero che il pubblico vuole sempre lo stesso repertorio?
«Credo di no. Ma si vuole il massimo risultato con il minimo sforzo, in questo caso minimo sforzo di pensiero. Io mi rifaccio ad un pensiero di Vinicio Capossela». Quale? «Massimo sforzo per il massimo risultato».