Corriere di Bologna

«Romagna mia? Non ci credeva neanche papà»

Riccarda, la figlia di Secondo Casadei, ricorda la figura del padre in occasione dell’uscita di un doppio cd con 44 registrazi­oni. «In quella canzone non ci credeva un granché. Ma è diventata il nostro orgoglio»

- di Luciana Cavina

«Che fortuna avere avuto un babbo così. Era il più buono del mondo, ottimista in ogni situazione. Appena lo vedevi splendeva il sole». La signora Riccarda, verace come la sua terra, ogni volta che parla di papà Secondo Casadei, si emoziona, ritrova e riflette quella luce. Ci parla dalla sua casa-museo a Savignano del Rubicone, un scrigno sempre aperto ai visitatori che tra i tanti cimeli conserva intatti il leggendari­o violino, le chitarre e il pianoforte nello stesso studio dove nacquero Romagna mia e una cascata di polke, tanghi, valzer e mazurke. Ci confida la sua felicità nell’aver appena contribuit­o a dare alle stampe Mi

chiamo Secondo, doppio Cd (disponibil­e anche in download e streaming) con 44 registrazi­oni originali rimasteriz­zate da nastri analogici pescati da un incredibil­e repertorio di 1048 incisioni. Un primo disco uscì qualche anno prima «e altri ne usciranno ancora». I brani emergono dagli archivi della Universal Music, ereditati da Emi che, ancora prima, in Italia, era La voce del Padrone, etichetta d’elezione dal padre del liscio romagnolo (per una manciata d’anni incise anche con la Fonit Cetra). «Pensi che mio padre non ha nemmeno mai parlato di liscio». Come definiva lui la propria musica?

«Si accorse che gli altri la definivano “liscio”, un paio di anni prima di morire, tra il ‘69 e il ‘70, quando andava a suonare il Veneto, Lombardia, Piemonte...Si stupiva: “I nostri ballerini, mica strisciano i piedi per terra”, per lui era “musica da ballo romagnola”. Poi mio cugino Raoul lanciò il “vai col liscio!” e così siamo andati avanti». Come avete selezionat­e le tracce di questo nuovo disco?

Ci amava molto, amava la mamma, ma per lui prima di tutto veniva la musica. Andò a suonare anche la prima notte di nozze Dopo la guerra, la gente cominciava a fischiare le sue canzoni. Volevano che anche lui suonasse la musica di Glenn Miller.

«In mezzo ad alcuni brani più famosi come Sangue Romagnolo ci sono anche quelli meno conosciuti, molti in dialetto, da Burdela campagnola a Un bes in bicicleta. C’è anche il tango argentino che porta il mio nome: è un atto d’amore per me. Sono tutte da ballare. Abbiamo introdotto anche un parlato fuori onda». Non può mancare «Romagna mia».

«Certo che no: il nostro orgoglio. È conosciuta in tutto il mondo. Pure Giovanni Paolo II l’ha fatta cantare con Polonia

mia. Forse adesso la facciamo incidere in cinese. Ce l’hanno proposto. Eppure mio padre non ci credeva in questa canzone». È nata per caso?

«Era un valzerino che il babbo teneva come riserva, lo aveva intitolato Casetta mia, la sua modesta ma adorata casa a Gatteo Mare. La fece sentire nel 1954 al maestro Olivieri della Voce del Padrone perché non riuscivano a trovare il can-

tante giusto per registrare un altro brano. Fu Olivieri a cambiare titolo e pronostica­re che avrebbe funzionato: “Non è solo romagnola — disse — ha un respiro italiano”». Voi vi aspettavat­e questa fortuna?

«Non ci aspettavam­o una diffusione così internazio­nale: molto ha fatto la Riviera dove arrivava gente da tutto il mondo. Lì c’erano le balere e il juke box. E poi Radio Capodistri­a la mandava sempre». Suo padre quando componeva?

«Sempre, non perdeva occasione. Se era un po’ cupo si ritirava in studio e ne usciva raggiante, diceva che non riusciva a tenere tutte quelle cose in testa. Ci amava molto, amava la mamma Maria, ma prima di tutto la musica. Si sposò dopo 11 anni di fidanzamen­to. Ormai in paese era uno scandalo. Ma andò a suonare con l’orchestra anche la prima notte di nozze». Riuscì a comporre anche

sotto i bombardame­nti della guerra?

«Sì, compose 200 brani. Dedicò anche una canzone a entrambi i genitori rimasti uccisi, parlava di dolore e di speranza. Noi perdemmo la casa sotto le bombe e tutti i nostri averi, andammo a vivere in una stalla con altri contadini, lui riprese il mestiere del sarto e con la sua valigetta andava a lavorare in giro. Mantenne così la famiglia. Lo conoscevan­o tutti e lo amavano. Chi poteva ci aiutava: con un fiasco di vino, un salame, un po’ di farina». Non si è mai scoraggiat­o?

«Subito dopo la guerra, la gente cominciava a fischiare le sue canzoni. Volevano che suonasse “musica moderna”, il jazz, Glenn Miller, quello che andava di moda. Aveva ottimi musicisti, i migliori solisti della regione, e tutti si adeguavano ma lui escogitò un sistema..» Quale?

«Quando la pista era piena infilava in programma Danubio blu, il valzer della Traviata,

la Vedova allegra, tutti brani che nessuno poteva contestare poi a sorpresa attaccava con la musica romagnola... Riuscì di nuovo a farsi apprezzare da tutti. Infatti gli anni 50 sono anni di grande successo». E lui che musica ascoltava?

«Tutta, la amava tutta, il jazz, la classica, le novità che venivano dall’estero. Certo il suo esempio era Carlo Brighi, il primo violino della Scala con la direzione di Toscanini. Fu lui a fine Ottocento a portare in Italia i valzer e le polke del mitteleuro­pa e a velocizzar­le, ad adattarle». Poi arrivò suo babbo che le rese più... romagnole?

«Sì, lui le trasformò con il suo carattere, aggiunse il sax al clarinetto in do, e poi la batteria. Fu un grande innovatore, curava anche l’immagine e le divise dell’orchestra, e fece cantare la prima donna, con 11 uomini. Fu uno scandalo. Lei,

Arte ma era Tamburini, bravissima. aveva Papà 17 anni la coccolava come una figlia».

Come avete vissuto questa passione per la musica in famiglia?

«La nostra famiglia erano, per esempio, anche i pappagalli­ni Mambo e Rumba, il gallo Caruso e le galline Turandot e Butterfly...e le favole che raccontava a me, mio fratello e in nipotini..» Favole?

«I sette anni erano un’orchestra e Biancaneve una cantante lirica che gorgheggia­va con gli uccellini; Pinocchio era un maestro di clarinetto in do e il gatto e la volpe dei cantastori­e. La nonna di Cappuccett­o Rosso aveva aperto una scuola di musica..». Da cosa traeva ispirazion­e per le sue composizio­ni?

«Da tutto ciò che gli accadeva, le donne che aveva conosciuto, mia madre, noi. Mio fratello Giampiero nacque con un problema: lui scrisse un valzer che finiva comunque con toni di speranza, in tonalità maggiore. E poi non voleva oliare la porta di casa perché per lui i cigolii erano note. Erano note anche il cucchiaio che batteva sul piatto, i rumori della cucina». Qual è stato il suo primo brano?

«Un valzer viennese reso più ritmato, senza il cantato. Era il 1928». È ancora viva l’eredità di Secondo Casadei?

«I nipoti di quelli che ballavano con lui vengono a trovarci. C’è chi ancora a Natale ci porta i capponi, le uova e gli ortaggi dei loro campi. Lui metteva il cuore in tutto ed è quello che resta. Lavoriamo con i bambini, le scuole di ballo. Le canzoni del babbo si suonano ancora nelle balere. Presto verranno a Savignano anche gruppi di americani, credo che conoscano Romagna mia».

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