Luciano che visse due volte «Io, Bologna e quella cravatta...»
Viaggio nei ricordi del doppio ex: tra corse, gol e qualche fischio
Qui Eriberto, là Luciano, comunque una vicenda singolare e divertente entrata nella storia del club rossoblù. L’uomo che fu due volte ragazzo, arrivato in Italia ormai 20 anni fa, non è più amareggiato per i fischi che gli rivolgevano i tifosi del Bologna al Dall’Ara.
«Arrivavano quando giocavo da avversario, lo so, adesso è tutto finito, non corro più e ho capito, anzi sono convinto, che i tifosi bolognesi, sciocchezze giovanili a parte (si riferisce all’incidente in auto sui viali contromano, ndr), non mi vogliono male. E io non ne voglio a loro. Del resto Bologna è la prima città che mi ha accolto e non solo non ho niente contro, ma anzi sono contento e devo ringraziarla: tutto è iniziato lì». Come fu l’impatto?
«Il primo ricordo è che quando sono arrivato non capivo niente, ero in un altro mondo, tutto nuovo. Non fu semplice soprattutto perché il mio procuratore (lo stesso che lo convinse ad abbassarsi l’età di quattro anni e cambiare nome in Eriberto, ndr) mi lasciò qui tutto da solo dopo solo due giorni». Chi ti aiutò?
«I miei compagni di squadra, in particolare Beppe Signori e Davide Fontolan che in quel primo periodo stavano all’Hotel Amadeus come me. Mi portavano in giro, mi spiegavano le cose, mi insegnavano come vivere in Italia, mi facevano conoscere tante persone. Sono stati davvero eccezionali».
Poi, in quel Bologna 98-99 che cavalcò in Europa e un po’ anche in Italia, c’era Carletto Mazzone.
«Un grande. Ho imparato tanto da lui, calcisticamente e umanamente. Io ero arrivato come centrocampista centrale, ma fu lui a spostarmi sulla fascia destra nel suo 4-4-2. Grande allenatore, ma anche come persona: quando c’era da incazzarsi lo faceva eccome, ma dopo c’era sempre il modo per tornare normale e divertente. Mi ricordo i martedì, quando regalava la cravatta a chi aveva fatto l’assist, ma prima faceva “il discorso” e ci si rideva sempre sopra. Ci si divertiva sì».
Poi altri due allenatori, Buso e Guidolin: tutti diversi.
«Buso una persona perbene che sapeva tutto di calcio, proprio tutto, ma arrivò in panchina nel momento sbagliato. Che Dio lo tenga nel cuore in modo che da lassù possa vedere tutto. Guidolin un vero tecnico con un carattere particolare: a fine allenamento
andava sempre in bici…».
A parte i gol segnati in quella speciale Coppa Uefa (contro lo Sporting e il Betis Siviglia), il ricordo più esaltante fu il gol del 2-0 a Venezia al ‘90: un incredibile coast to coast…
«Di quelli indimenticabili, che entrano nella storia, sì. Lo ricordo bene, c’era una punizione fuori area un po’ laterale, eravamo in barriera io e Fontolan e lui mi avvertì subito: “Attento che non la butta dentro, ma fa il passaggio”. E così fu, io lessi bene e in anticipo la giocata, rubai palla e mi misi a correre… ero talmente veloce che avrei potuto continuare fin dietro la porta e poi in curva...». E Mazzone, che a fine partita
disse «ahò, sembrava ‘na panterona!», il martedì la cravatta la regalò a Fontolan? «No, no, lui mi voleva bene e la regalò a me!»
Poi il Chievo e la confessione sulla vera identità (quattro anni di più e il nome Luciano, ndr). Ora, tornato dal Brasile, ha preso il patentino a Coverciano e…
«Il Chievo e Verona fanno parte della mia famiglia, mi piacerebbe lavorare nel mondo del calcio e sto dialogando con la società».
Si parla di un incarico nelle giovanili, vedremo. Del resto lui ne sa, è stato giovane due volte, una per davvero e una per finta: nel Bologna. E va bene così.
Bologna è la prima città che mi ha accolto Sono contento e devo ringraziarla: tutto è iniziato lì