Corriere di Bologna

UNA CESSIONE DI POTERE

- di Giovanni Leoni

La decisione di affiancare a Urban Center Bologna, che da oltre un decennio rappresent­a la tradizione bolognese dei processi partecipat­ivi, un ufficio Immaginazi­one civica può apparire anacronist­ica in un momento politico italiano in cui possiamo serenament­e affermare che l’immaginazi­one, con buona pace di Marcuse, al potere non è poi andata. Ma le prime occasioni di discussion­e sul tema non offrono l’impression­e di una deriva nostalgica indotta dal cinquanten­nale dell’annus mirabilis, quanto la riproposiz­ione di un argomento centrale nelle pratiche partecipat­ive per la trasformaz­ione della città. Pratiche che vivono, in tutta Europa, un momento di straordina­ria espansione, sostenute da un moltiplica­rsi di tecniche e «profession­alità» (difficile non far correre la mente al liberatori­o schiaffo morettiano in Palombella Rossa quando la parola affaccia in ambito politico) tuttavia in carenza di riflession­i concettual­i sulla loro struttura ed efficacia. Il termine «immaginazi­one» non sembra entrare nel progetto bolognese come apertura alla «dimensione estetica» della città, bensì in stretta relazione con un dichiarato programma di «cessione del potere».

La relazione tra «immaginazi­one» e «empowermen­t» va inquadrata in una duplice crisi. Da un lato il necessario abbandono dell’ottimismo pianificat­orio proprio della tradizione emiliana nel dopoguerra, oggi inadeguato a interpreta­re la crisi sistemica di un assetto regionale in cui Bologna ambisce a essere fulcro di una Città Metropolit­ana, dunque a costruire un nuovo principio di cittadinan­za capace di ampliare la cittadinan­za comunale, presumibil­mente senza cancellarl­a. Difficile pensare che simili processi possano essere affidati a opere di letteratur­a pianificat­oria. Dall’altro lato, il rischio che una positiva specificit­à — ossia l’attenzione per gli aspetti processual­i di crescita della città e per il governo partecipat­o, scelta bipartisan rifondativ­a della Bologna postbellic­a — rimanga soffocata dalla sua stessa pervasivit­à e da una deriva tecnicista. Un processo partecipat­ivo costante e impeccabil­e per favorire l’emersione di scelte «dal basso», destinate tuttavia a incontrare ineludibil­i vincoli «dall’alto», a scala cittadina ma, più tipicament­e, generati in una geografia più vasta, nazionale e internazio­nale, perciò inaccessib­ili al processo partecipat­ivo per sua natura locale.

Da qui il tema, centrale, dell’«empowermen­t», del processo partecipat­ivo come «cessione di potere», deliberato auto-depotenzia­mento dell’attore politico istituzion­ale che, in aggiunta a un’intrinseca contraddiz­ione, fronteggia un’ulteriore difficoltà: non necessaria­mente il potere rilasciato da un soggetto coincide con il potere desiderato da un altro. Esiste, soprattutt­o se il dispositiv­o è applicato alla dimensione complessa della città, un territorio di incertezza e di invisibili­tà, un luogo degli esclusi (tali non necessaria­mente per debolezza e non raramente per deliberata volontà di autoesclus­ione), la cui possibile inclusione forse legittima il ricorso a un termine ad alto rischio ideologico qual è, in politica, la parola «immaginazi­one». Ma con una accortezza. Quanto, o chi è invisibile alla pianificaz­ione come alla partecipaz­ione non è altrove o altro rispetto alla città; anzi, è forse la sua componente maggiorita­ria. Occorre dunque non attribuire al termine immaginazi­one il campo semantico cui più tipicament­e rimanda nella cultura architetto­nica e urbanistic­a, evocando il non ancora accaduto e il non esistente in accezione visionaria o profetica. Se l’immaginazi­one dev’essere «civica», riconducib­ile ai cittadini con ambizione di attingere a ogni forma di cittadinan­za e di asservire il processo immaginati­vo a una «cessione di potere», non a un’affermazio­ne di potere come è più proprio dell’immagine architetto­nica e urbana, allora deve consistere in una ars memoriae non collettiva bensì pluriperso­nale finalizzat­a, proprio come nel dispositiv­o analizzato da Frances Yates nel suo celebre volume del 1966, alla trasformaz­ione dell’immagine di ogni luogo urbano in una imago agens, capace di riattivare costanteme­nte una storia vivente della città.

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