«Il cielo non è un fondale» La politica senza proclami
La pièce più bella della stagione passata è firmata da Deflorian-Tagliarini
Lo spettacolo dell’anno sulle scene bolognesi è stato senz’altro Il cielo
non è un fondale. Si parla molto oggi di necessità di un nuovo teatro politico, capace di interpretare urgenze reali, di aprire la scena alla partecipazione e ai nuovi esclusi, i migranti, i giovani. Il
Cielo è creazione radicalmente politica senza proclami e senza ideologismi, tanto da sembrare anzi una divagazione continua di sentimenti, sogni, visioni, idiosincrasie individuali. Candidato a 5 premi Ubu, è stato concepito da Daria Deflorian, attrice poetessa capace di giocare come nessun’altra sulla lama tra verità e rappresentazione, e Antonio Tagliarini, performer di acuta intelligenza; in collaborazione scenica con la raffinata vibrante voce di Monica Demuru, che apre crepacci di dolore, abbandono, rapimento, e con l’efficace presenza di Francesco Alberici, piena delle domande esitanti o feroci di chi sta a cavallo dei 30 anni.
Si parte da un sogno di Antonio, che vede Daria come una barbona piena di borse e buste buttata in un angolo di strada centrale di Roma, e inanella sogni che parlano di sogni, ricordi, pagine letterarie che narrano la desolazione della povertà nei parchi di Londra, riflessioni che rizoni portano alla realtà ai ricordi alle paure agli atti smozzicati alle fughe di un «io obeso», e al dolore del mondo. Le voci si intrecciano, si sovrappongono, si intarsiano con canuna di Dalla (Il cielo), Truppi, Battisti; i corpi occupano tutta la scena, conquistano il primo piano o aprono romantici melanconici campi lunghi intorno a un fondalino nero, mentre le magiche luci di Gianni Staropoli trascinano in plumbei orizzonti urbani, in ritratti d’anima, in bagliori improvvisi, in crepuscoli ansiogeni.
Un incidente che ha stroncato la carriera di danzatore di Antonio, una vita, quella di Daria, che a 36 anni sembrava buttata in lavoretti per campare, i dubbi di Francesco davanti a un baracchino dei panini sotto la pioggia, e quegli «altri» che popolano i bordi delle nostre vite, gli ultimi, i miserabili, i perduti, gli sprecati, come fondali invisibili, come quel cielo che si insinua nelle città senza essere mai nel fuoco centrale della vite. Questo, con i suoi balbettii, le sue accelerazioni, le sue confessioni, la sua voglia di trovare e dare la felicità, attaccati a un termosifone che invada tutta la fredda città, è uno spettacolo «intimamente» politico: siamo noi in scena, spezzati di fronte a quel fondale distante che sono gli altri, in un faticoso incedere che pone domande alla gioia dei giorni venturi. «Il cielo non è un fondale» riesce come pochi spettacoli a ridare senso alla necessità del teatro, alla sua folle chirurgica sentimentale politica poesia.