Il teatro in carcere alla berlina Billi mette in gioco se stesso
L’autore e regista ha portato in scena all’Arena uno spettacolo che divide
Applausi calorosissimi del pubblico, fitto di studenti, e qualche muso storto degli addetti ai lavori di provenienza teatrale. Divide l’ultimo spettacolo del Teatro del Pratello, come sempre firmato da Paolo Billi e interpretato da una compagnia formata da ragazzi in carico alla giustizia penale minorile, attrici di Botteghe Molière e anziani provenienti dalla Primo Levi. Il titolo fa capire che qualche provocazione c’è: Mère Ubu impresaria di teatro in carcere. Dopo due testi di Giuliano Scabia, presentati negli anni scorsi sempre all’Arena del Sole, questa volta il regista-autore bolognese torna a una vena satirica swiftiana, che rovescia luoghi comuni e esplora paradossi. La nobile attività di teatro in carcere, che egli persegue da una ventina d’anni tra istituti minorili e per adulti, diventa appannaggio di uno dei personaggi inventati da Alfred Jarry, la moglie dagli appetiti smisurati di quel buffone crudele che è Ubu, parafrasi grottesca del
Macbeth. La signora si presenta con una compagnia di volontarie di Santa Scalognasi). di nero vestite, entusiaste di alleviare la vita dei giovani reclusi con il teatro, «non dando corpo ai fantasmi inventati dagli scrittori ma rendendo i fantasmi reclusi corpi».
Qualcuno noterà che quero sta battuta somiglia a quella che si sente tra gli Scalognati dei Giganti della montagna di Pirandello. Il testo è un centone di citazioni, che vanno da Pirandello e Swift (appunto) al Rabelais più mordace, da Metastasio e Goldoni con i lota impresari imbroglioni fino ad Armando Punzo e ad altri scritti di poetica o di interpretazione del teatro in carcere (c’è pure qualche frase di studiosi, come «immaginazione contro emarginazione» del compianto Claudio Meldole- Il tutto frullato dietro un velo trasparente in una specie di Hellzapoppin” piena di colori, balletti, visioni, con giovani reclusi che si presentano al provino e stagionate drag queen che commentano abbandonate su una panchina dietro sbarre. Il teatro in carcere è messo alla berlina per le ambiguità tra arte e azione sociale che contiene, per i brividi voyeristici che scatena negli spettatori. Ce n’è per tutti, e lo stesso Billi si mette in mezzo.
Lo spettacolo però rivela se stesso nei momenti in cui la scena è invasa dalle proiezioni in bianco e nero del panopticon, il carcere a controllo e isolamento totale progettato nel 700. Immagini di ombre che si affacciano dietro sbarre, ringhiere, in corridoi vuoti, come vite desolate. Billi ride con il dolore di chi ogni giorno affronta situazioni di vita desolanti, capaci di distruggere. E vuole dire: ogni cosa, anche la più nobile, quando si esaurisce in formule diventa consolatoria, stantia. Bisogna ogni giorno, confrontandosi col dolore, distruggersi e ricostruirsi e distruggersi. Come il teatrino dello spettacolo: alla fine abbattuto, il velo caduto, la petulante Mère Ubu appesa per i piedi sullo sfondo in controluce.