«Comincia qui una battaglia nelle istituzioni»
Belfakir: «Coinvolgeremo le istituzioni»
«Sul velo sarà battaglia giuridica». È la promessa di Asmae Belfakir, l’avvocatessa islamica cacciata dal Tar perché indossava il velo. Ieri la 25enne è tornata in aula, al tribunale ordinario. Con il velo. «Ora coinvolgeremo le istituzioni. Intanto aspettiamo che si esprima il Consiglio di Stato». Poi lo sfogo personale: «Difficile essere una donna musulmana».
Si è ripresentata in aula, questa volta del Tribunale ordinario di Bologna, con un velo rosa. Già il giorno dopo — il giorno dopo che un giudice del Tar dell’Emilia-Romagna l’ha cacciata dall’udienza per il suo velo — Asmae Belfakir è tornata al lavoro. Intenzionata a portare avanti, oltre alla sua professione, anche una battaglia giuridica per colmare, come dice lei stessa, «le lacune legislative» in materia. In materia di velo, libertà di culto, normative vigenti. «È andato tutto bene in aula, non ci sono stati problemi», ha detto ieri la 25enne di origini marocchine, praticante dello studio legale dell’Università di Modena e Reggio Emilia, uscendo dall’aula del tribunale, dove aveva un’udienza di diritto del lavoro.
Adesso che la bufera è (quasi) passata e che i riflettori si stanno già spegnendo sulla vicenda che l’ha vista protagonista insieme al giudice della seconda sezione del Tar, Giancarlo Mozzarelli, che mercoledì l’ha fatta uscire da un’udienza perché indossava il velo hijab, Belfakir guarda avanti. E promette, una volta tornata alla sua quotidianità, di volersi battere per rimettere mano a una normativa superata, a suo avviso, dalla realtà. «Intendo portare la questione agli organi istituzionali competenti. Il consiglio nazionale forense e tanti ordini degli avvocati e associazioni — spiega lei — hanno espresso sconcerto su quanto successo e riconoscono le gravi lacune legislative: insieme potremmo lavorare a qualche strategia. Attendiamo la relazione del Consiglio di Stato, che adotterà i provvedimenti che riterrà opportuni e se lo riterrà necessario». Perché dopo quanto accaduto mercoledì al Tar, il Consiglio di Stato ha aperto un’inchiesta su disposizione del suo presidente Alessandro Pajno. Bisognerà vedere se l’esito dell’indagine porterà anche a una rivisitazione della norma vigente.
«La questione — continua la giovane avvocatessa, legale anche della Comunità islamica di Bologna — è molto grave, ma si può superare l’impasse. Vedo su internet l’articolo 129 del Codice di procedura civile copiato e incollato ovunque, ma le norme vanno lette, studiate, interpretate. Ammesso, ma non concesso, che anche per le udienze di amministrativo vada applicato il codice 129, a me, ma non solo a me, pare evidente che la norma vada interpretata e contestualizzata. Capo scoperto, quando è stato emanato il codice, non alludeva certo al hijab». Che, come racconta Asmae, lei ha sempre portato ovunque. «Ben visibile», ci tiene a precisare. Ma poi la selezione per l’ufficio legale di Unimore, dove sta facendo il praticantato, l’ha passata, rivendica la giovane avvocatessa, «per il mio curriculum e le mie abilità».
Quindi lo sfogo più intimo. Quello che ha a che fare con la propria identità e con le proprie radici. «È già tutto difficile per una donna — confessa Belfakir — figuriamoci per una donna musulmana. Deve essere brava il doppio, lavorare il doppio, per far capire che può farcela comunque. Senti spesso commenti, anche fatti in buona fede, che sono brava anche se sono musulmana, che ho fatto il liceo classico anche se sono marocchina, confondendo spesso il piano della nazionalità con quello della religione. Speriamo di trovare un equilibrio e di mantenere il fuoco sul senso di dignità che abbiamo di noi stessi. Ora voglio tornare alla mia vita, ma con una nuova consapevolezza e una nuova battaglia da portare avanti».
L’avvocato È tutto difficile per una donna, figuriamoci per una donna musulmana