STORIE DI COMUNISTI
Da stasera in esclusiva italiana lo spettacolo «Atlas des Kommunismus», in occasione della mostra «Revolutija» al Mambo con la regia dell’argentina Lola Arias: «Ricostruiamo esistenze di persone che hanno vissuto nella Ddr fino alla caduta del muro e capi
Ha poco più di 40 anni, Lola Arias, e un volto da ragazzina. Scrive, compone canzoni, fa la regista e l’attrice di teatro e di cinema. Lavora tra la sua terra, l’Argentina, e la Germania e la Svizzera, dove ha collaborato con Kaegi dei Rimini Protokoll, ovvero la compagnia che da più di 15 anni fa teatro con non professionisti, impastato di storie e di voci della vita reale. Da stasera a lunedì all’Arena del Sole si potrà vedere in esclusiva italiana il suo spettacolo Atlas des Kommunismus, una riflessione sul movimento che voleva cambiare il mondo, presentato dal Maksim Gorki Theater di Berlino con Ert e con la mostra «Revolutija» in corso al Mambo.
Cos’è questo spettacolo: una storia del comunismo dalla rivoluzione in poi?
«In realtà il titolo è ambizioso e deliberatamente pretenzioso. Un atlante del comunismo è impossibile da farsi in uno spettacolo. Il progetto è cominciato con l’idea di riunire persone che potessero tracciare una storia comune attraverso esperienze diverse. Cerchiamo di ricostruire vite di persone di differenti generazioni che hanno vissuto nella Repubblica democratica tedesca (Ddr) fino alla caduta del muro, e di
capire cosa abbia generato questo evento». Come avete scelto gli attori?
«Per un lungo periodo abbiamo intervistato soggetti di varia età, che avevano attraversato quei tempi. Siamo stati colpiti soprattutto da storie di donne, perché la Germania Est per costruire il suo modello di società ha fatto molta leva sulle lavoratrici. Ha raggiunto livelli molto avanzati di eguaglianza sul lavoro. Ma la donna dopo otto ore di fabbrica continuava a faticare in casa, perché gli uomini, culturalmente, non si occupavano di pulizie, di cucina, dei figli».
Tra le storie, ne emerge qualcuna?
«Cerchiamo di cogliere, attraverso le varie presenze, perlopiù di non professionisti, momenti storici differenti, il ‘49, il ‘55, il ‘65, il ‘78, gli anni 80. Centrale è la figura di Salomea Genin. Lei oggi ha 84
anni. È nata sotto il nazismo. Ebrea, è fuggita dalla Germania nel 1937, rifugiandosi in Australia. Là è diventata comunista. È emigrata nella Ddr negli anni 50, ha visto la costruzione del muro, ha aderito allo stato tanto da essere per 20 anni agente della polizia segreta, la Stasi. Dopo è stata una di quelle che hanno chiesto scusa». E gli altri personaggi?
«C’è un’attrice del Gorki che ha partecipato alle recite che alla fine degli anni 80 criticavano il regime, quando teatri e chiese erano luoghi franchi di discussione. C’è una cantante punk, protagonista di quella musica di opposizione e resistenza. C’è una traduttrice presente alla conferenza ufficiale che annunciò l’apertura delle frontiere nel 1989. Ci sono lavoratrici vietnamite, burattinai, attiviste, studenti berlinesi». Che funzione hanno video e musiche?
«Nello scorrere delle vicende personali forniscono una memoria visiva e sonora, un album dei ricordi con fotografie, filmati, canzoni di lotta e motivi d’epoca». È teatro documentario?
«Nel cinema il documentario è un genere preciso, che mostra pezzi di realtà. A teatro spesso storie reali sono narrate da attori. Qui siamo in un caso particolare perché il testo è costruito dai protagonisti dei fatti. È anche un esperimento sociale: un confronto, con diverse posizioni, su quello che è stata la Ddr e sulla società che ne è uscita. Ci sono state, per esempio, discussioni molto accalorate sulla Stasi». Per finire: lei è comunista?
«Sì. Non nostalgica. Il comunismo storico ha realizzato cose buone e ha fatto molti errori gravi. Essere comunista per me vuol dire pensare a un modello alternativo di società per il futuro. Per molti quella parola significa l’unica alternativa politica al capitalismo, per una società tutta da immaginare».