«Così il Rizzoli aprì la prima scuola»
Vent’anni fa le superiori debuttarono in un ospedale: merito di un paziente di 14 anni
Un ragazzino di 14 anni, che si presenta ta al pronto soccorso con una frattura al femore per un tumore. «Mi disse che potevo fargli qualunque cosa purché gli consentissi di tornare a scuola», ricorda Marco Manfrini, il chirurgo del Rizzoli che lo soccorse. Grazie al suo desiderio di non perdere i contatti con i compagni, nacque 20 anni fa la prima scuola superiore in ospedale in Italia.
Quel ragazzino aveva un tumore, siamo rimasti in contatto, si iscrisse a Medicina, ora non c’è più
I vent’anni della prima scuola superiore in ospedale in Italia. Li celebra l’istituto ortopedico Rizzoli, che la fondò, l’1 febbraio con un convegno che ripercorre la storia di questa esperienza che nacque per una concomitanza e per un ragazzino, pronto a qualunque dolore ma non a rinunciare agli studi. Lo ricorda Marco Manfrini, chirurgo ortopedico, che da oltre 30 anni si occupa di tumori ossei infantili.
Dottor Manfrini, non c’erano altre esperienze allora?
«Di scuole superiori no. Al Rizzoli c’era storicamente la scuola elementare legata alla Pediatria e collegata con le scuole Carducci, con le maestre che facevano lezione ai bambini ricoverati per lunghi periodi. Organizzare una scuola media o superiore è più complesso per la pluralità di materie e di insegnanti».
Quando nacque?
«Tra il ‘96 e il ‘97 quando c’erano il commissario straordinario Achille Ardigò, Mario Campanacci come responsabile di tutto il reparto di Oncologia e Gaetano Bacci, che guidava la Chemioterapia. Firmarono una convenzione con l’allora provveditore Paolo Marcheselli. Un’altra persona importante fu la preside dell’istituto a cui fu affidata la gestione degli insegnanti, la professoressa Giuliana Cimatti dell’istituto alberghiero Scappi di Castel San Pietro».
Comer mai l’alberghiero?
«La storia vera vede me come piccolo protagonista e spiega anche questa scelta. Una notte a fine ‘95 in un turno di pronto soccorso, mi trovai ad accogliere un 14enne con una frattura di femore patologica, da tumore, che veniva dalla Sardegna. Mi colpì perché mentre facevo alcune mosse un po’ traumatiche lui mi disse che potevo fare quello che volevo bastava che facessi in modo di riportarlo a scuola. Quello che lo spa- ventava di più era perdere la possibilità di andare a scuola con i suoi compagni».
E invece i vostri pazienti rischiano di perdere molti mesi a scuola. Cosa fece?
«Tornai a casa e ne parlai con mia moglie che è insegnante e faceva la supplente all’alberghiero. Le dissi che non si poteva difendere il diritto alla salute di un ragazzino senza difendere il suo diritto allo studio. Contemporaneamente gli infermieri di chemioterapia avevano fatto un’analisi proprio sui ragazzini in quella fascia di età».
Cosa diceva la ricerca?
«Più del 40% aveva perso da uno a due anni scolastici. Mia moglie ne parlò a scuola, fu coinvolta un’ispettrice, che ne parlò a Roma al ministero. La Regione Sardegna nel frattempo aveva consentito a questo ragazzino di avere un contatto telematico tra la scuola e casa. E quando veniva qui fu tra i primi a fare ore di ripetizione. In poco tempo si arrivò a definire un percorso che prevedeva insegnanti fisse di alcune materie delle superiori, prima volontarie e poi pagate a gettone, così che tutto il periodo di ricovero avesse valore per la frequenza scolastica. Arrivò poi una normativa ad hoc. Il Rizzoli ebbe anche un premio per questa operazione».
Siete rimasti in contatto con quel ragazzino?
«È arrivato a fare l’università, si era iscritto a Medicina, ma ora non c’è più. Ci sono tanti altri ex pazienti che in questi 20 anni hanno frequentato la scuola in ospedale e che verranno l’1 febbraio. È importante per questi pazienti avere progetti che li tengono legati alla loro vita, soprattutto futura. A quell’età la scuola è un asse portante dei progetti di vita. Inoltre con gli insegnanti si creano rapporti umani, ugualmente importanti».