MANGIARE «ALL’HEBREA»
Oggi è la giornata dedicata alla memoria, alla memoria della Shoah e più in generale al valore della memoria che salva in molti casi: è perché ci ricordiamo quanto la fiamma brucia che evitiamo ustioni. Bisogna ricordare le tragedie.
Ma anche gli elementi, i contributi che le hanno evitate o ritardate: le collaborazioni realizzate fra diversi, la fiducia accordata a chi apparteneva a un’altra cultura o professava una diversa religione. Oggi che l’interesse per il cibo è preponderante, straripante, quasi imbarazzante vorrei ragionare di cibo e memoria a proposito di mangiare «all’hebrea». In città abbiamo ristoranti che propongono le più svariate cucine ma, a mia conoscenza, non ci è proposta la cucina ebraica (se non molto parzialmente) e le ragioni possono essere molteplici. Forse una di esse è che molti piatti della cucina «all’hebrea» sono diventati comuni, perché gustosi, graditi, richiesti: così le frittelle con miele e cannella, i paté di fegato grasso, i carciofi fritti “a rosa” (e non è detto che tutti sappiano essere alla giudia). Lo stufato coi fagioli è piatto che accomuna, l’indivia al forno con pesce azzurro è piatto ricco di gusto, di poco costo e adatto a cristiani ed ebrei e pure musulmani, credo.
Ricordiamo che le differenze culturali e religiose ben difficilmente sono del tutto prive di terreni comuni, di condizionamento reciproco, di scavalcamenti dei confini. La tavola è stata ed è il posto giusto per condivisioni, sperimenti, aggiustamenti. All’epoca del ghetto pare fossero numerosi i cristiani che lo frequentavano per procurarsi dei salami d’oca e, per ricorrere all’esperienza personale, la mia cattolicissima suocera parmense non mancava di acquistare e gustare a ogni Natale la spongata che è dolce di derivazione ebraica. Piaceva ed è stato adottato e dopo un po’ si è persa la cognizione della provenienza. La convivenza è fatta anche di questo, cioè del rispetto delle diversità ma anche di imprestiti, mescidanze, superamenti di barriere.
Ai bolognesi forti consumatori di carni suine va ricordato la storia della Casa dei catecumeni di Bologna sorta nel 1568 (Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, creò la prima Casa del genere a Roma nel 1543 al fine assistere gli ex ebrei che avevano accettato, o erano stati indotti a farlo, il passaggio al cristianesimo per evitare loro la tentazione di rinnegare la propria scelta). I neofiti venivano messi alla «prova della mortadella» o di qualche altro cibo bandito dall’ebraismo. Quella mortadella divideva, denunciava, realizzava una violenza: se un catecumeno si rifiuta di mangiarla va costretto, si legge nei documenti dell’epoca.
Ricordiamoci di questo ma anche dei frati di S. Francesco ad Assisi che non rifuggivano dal sedere alla mensa del loro medico ebreo per bere insieme del suo «vino antiquo» realizzato con uve pestate da piedi ebraici. A loro volta gli ebrei apprezzavano il vino prodotto dai frati.
Ricordiamo differenze, separazioni, forzature anche violenze. Ricordiamo anche condivisioni, atti di fiducia e momenti, a tavola ad esempio, di dialogo e di apprendimento della diversità e del gusto di essa.
Forse non abbiamo un vero ristorante in cui si mangi «all’hebrea» perché la comunità ebraica è poco numerosa o forse perché diversi piatti “alla giudia” sono diventati parte della più generale tradizione e cultura culinaria. Certo le regole kasher sono un’altra cosa, ma mi piace credere che l’esercizio a tavola di conoscenza, accettazione e condivisione indichi una strada: i carciofi fritti «a rosa» sono un piccolo segno di dialogo e del gusto che ne deriva.