Corriere di Bologna

«ÉLITE TROPPO LONTANE E RIFORMISMO FRAGILE»

Il presidente del Mulino Marco Cammelli analizza il voto del 4 marzo

- di Olivio Romanini

«Con il voto i cittadini hanno voluto mandare a casa le élite che non hanno risolto i loro problemi. Ma adesso siamo su un’auto senza guida che va in discesa. Il riformismo è sempre stata una pianta fragile, se si vuole ricostruir­e un riformismo condiviso il Pd stia all’opposizion­e e riparta dalla politica»

Se dovesse spiegare a qualcuno che cosa è successo veramente il 4 marzo che parole userebbe?

«Come ho spiegato ad alcuni amici stranieri che me l’hanno chiesto — spiega Marco Cammelli, ordinario di Diritto amministra­tivo, ex preside di Giurisprud­enza ed ex presidente della Fondazione del Monte, oggi presidente del Mulino, il pensatoio e casa editrice di Strada Maggiore— comincerei con il dire che la pianta del riformismo è sempre stata fragile, non solo in Italia, e che c’è stata un’enorme difficoltà a leggere le trasformaz­ioni in atto. Il riformismo è stato gracile e ha incontrato sempre fortissime reazioni in molti periodi storici». Quanto bisogna andare indietro per capire la crisi del riformismo di oggi?

«Se è per questo bisognereb­be tornare agli anni 60, ma diciamo che è all’inizio degli anni 90 che la politica viene messa in ginocchio dalle sue debolezze e da un micidiale gioco di insieme della magistratu­ra e dell’opinione pubblica. Tutto quello che succede adesso, il delirio della trasparenz­a, viene da lì. Oggi una persona normale, con capacità normali, fa fatica ad assumere un impegno pubblico perché deve accettare un bombardame­nto privato su fatti privati, deve firmare moduli dove racconta la vita dei propri parenti. Ma non si esce da questa situazione finché non si riforma la pubblica amministra­zione, quello è il problema numero uno». Spieghi meglio.

«La pubblica amministra­zione va governata, innovata, perché nel sonno della politica non vincono i poteri forti ma una somma di poteri deboli che si organizzan­o. Bisogna rimettere in sella la politica. Il tentativo di rimettere in sella la politica, pur con tutti i limiti caratteria­li, con le sue fragilità e idiosincra­sie, lo ha fatto Matteo Renzi con il referendum costituzio­nale. Non era la via del riformismo perfetto, era la via del riformismo possibile. L’esito del referendum ha aperto la strada a tutto il resto, quando il fiume non ha più argini si allaga tutto». E dunque?

«E dunque si riparte sempre dalla politica, io preferirei una politica di destra alla situazione attuale in cui non abbiamo nessuno al volante con l’auto che va in discesa». Ma non sarà mica colpa dei cittadini?

«No, io penso sempre che a parte qualche irrecupera­bile, la gente si esprima sempre in buona fede. Quello che è successo è molto semplice: c’è stata una incapacità di leggere la realtà che cambiava, si è continuato a leggerla con gli occhiali di prima. Il ragionamen­to è stato brutale: c’è una élite che non vede i problemi che vedo io, e che derivano dalla globalizza­zione e dall’immigrazio­ne, e la mandiamo a casa. Non possiamo aspettare che la gente ci prenda per la giacca e ci dica che il problema degli immigrati è molto sentito».

In alcuni periodi storici, quando il presente era confuso si ascoltava cosa avevano da dire gli intellettu­ali.

«C’è stata sicurament­e una crisi di conoscenza e di consapevol­ezza dei cittadini e anche gli intellettu­ali hanno avuto difficoltà a

leggere la realtà. Bisogna capire che l’attuazione della Costituzio­ne non è più un programma politico come era negli anni 60 e 70, ripeto che spesso si guarda alla realtà con gli occhiali di un tempo».

E cosa pensa della situazione del riformismo in Emilia e a Bologna e del risultato elettorale che c’è stato qui?

«La difficoltà di leggere la realtà c’è stata anche qui e questo è particolar­mente evidente per la regione. La debolezza di Bologna si è tenuta insieme con quella regionale, la città ha indebolito la regione e la mancanza di un disegno strategico della regione ha indebolito il capoluogo. Devo dire che sono anche molto perplesso di questo nuovo regionalis­mo differenzi­ato, vedo più autonomie che ci sono già e che non vengono giocate, piuttosto che bisogno di nuovi poteri». Cosa consiglier­ebbe di fare alla sinistra o, come dice lei, ai riformisti?

«Bisogna ripartire dalla politica e dal ricercare la via di un riformismo possibile e condiviso».

Che cosa farebbe se fosse al posto dei dirigenti del Partito democratic­o: andrebbe al governo con i Cinque Stelle di Luigi Di Maio o rimarrebbe a fare l’opposizion­e in Parlamento?

«No, non ci andrei, resterei all’opposizion­e. Anche perché per andarci bisognereb­be poter contare su delle carte che secondo me oggi il Pd non ha. Per ripartire bisogna capire quello che è successo. Il riformismo altro non è che declinare i vecchi principi, nella nuova realtà».

Il futuro I dem ripartano dall’opposizion­e, bisogna tornare alla politica e ad un riformismo condiviso

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