Il teatro «Nel nome della rosa»
Da martedì la trasposizione scenica del capolavoro di Eco. Il regista Muscato: «Rispettiamo i vari piani di lettura». Lazzareschi: «Io sono Guglielmo che rifiuta il dogma»
Contesto storico medievale, un testo monumentale, polisemico, che viaggia dal thriller al discorso metafisico tra linguaggi e umanità multidirezionali. Tutto questo in uno spettacolo di due ore e venti minuti che, assicura il regista Leo Muscato, ha incantato anche bambini di soli 9-10 anni. Il nome della
rosa di Umberto Eco approda per la prima volta al mondo a teatro, con la versione drammaturgica firmata da Stefano Massini, e dopo, 130 repliche e le sale piene, arriva anche in città: all’Arena del Sole, da martedì a domenica.
«Abbiamo cercato di mettere nello spettacolo tutti gli elementi del romanzo», fa sapere Muscato. Il film di JeanJacques Annaud, altro successo del 1986, in fondo qui non c’entra molto. La fedeltà è, prima di tutto alla letteratura, alla narrazione, di uno dei titoli più letti in assoluto. È centrale, per esempio, la figura del vecchio Adso, l’io narrante in scena (Luigi Diberti) che rivive quella settimana in cui lui adolescente (Il giovane Adso è Giovanni Anzaldo) guidato da Guglielmo da Baskerville (Luca Lazzareschi) scopre il motivo delle morti misteriose in abbazia e la potenza eversiva del Secondo libro della Poetica di Aristotele dedicato alla commedia e alla risata.
«Non rinunciamo alla complessità del mio personaggio — ragiona Lazzareschi — Un frate francescano con un oscuro passato da inquisitore. Lui è già proiettato verso il Rinascimento, nel contesto culturale in cui l’uomo è al centro del mondo. Rigoroso nel pensiero, è uomo di fede e di ragione, non si piega al dogma». Se l’impianto narrativo è dunque il noir che fa tremare i monaci, lo spettacolo non trascura affatto le argomentazioni filosofiche e teologiche, gli sguardi sul mondo.
Dubbi sull’esistenza di Dio, sul potere che all’epoca della storia narrata era ferocemente conteso tra Chiesa e Impero. Nella ricerca delle verità, conclude l’attore, «Guglielmo dimostra che la verità non esiste, ne è cosciente». E lo fa seguendo il ritmo degli eventi, senza deviazioni. Anche così si tiene viva l’attenzione dello spettatore. Lo fa interagendo con i tanti altri personaggi che si muovono intorno, compreso quel Salvatore che si esprime solo con un esuberante grammelot variopinto e che sul palco, interpretato da Alfonso Postiglione, strappa sempre un’ovazione.
«Guglielmo — va avanti Lazzareschi — rifiuta il dogma perché lui stesso, nel suo nome, ha compiuto efferatezze. Quando Eco scrisse il romanzo, l’Italia era attraversata dalle dottrine del terrorismo politico, ne era dilaniata, tra terrorismo rosso e nero». Forse il suo messaggio, allora, era quello di insinuare il valore del dubbio, della ricerca costante. «E oggi — si chiede Lazzareschi — non sarebbe un messaggio ancora più importante? Il terrorismo, anche nel nostro personale immagi- nario, ha raggiunto dimensioni planetarie». Può allora il teatro, indurre l’uomo a una salvifica profondità? «Semmai il teatro ha una funzione — risponde Lazzareschi — è la stessa che aveva la tragedia nel V secolo: raccontare storie per far riflettere su se stessi, quando sul palco un uomo afferma un verità e un altro gli risponde che, no, ce n’è un altra».
Oppure lo spettacolo è solo lo spunto. «Certo, fare riflettere è il nostro compito», gil fa eco Muscato, ma nel caso del
Nome della Rosa, «può essere solo il primo passo: Da quando giriamo con lo spettacolo, la Bompiani che edita il romanzo, ci dice che è tornato a vendere. Ne sono orgoglioso, perché forse i giovani non lo avevano mai letto; molti lo rileggono, come me, che l’ho scoperto all’università come romanzo storico e ora vi trovo molti altri livelli: la ricerca dei segni, l’importanza dell’analisi e dello studio, elementi che aiutano a comprendere il mondo contemporaneo». Merito, probabilmente, anche della messa in scena che, spiega il regista, «è tutt’altro che naturalistica e didascalica, ma evocativa». Entra nella mente, la mente elabora, l’immaginazione crea. Pensiero, parole e azione si avvicendano quini tra decine di luoghi differenti che appaiono e scompaiono tra le quinte che si muovono, muri che si alzano e si abbassano, proiezioni che mutano il paesaggio. Il fuoco accennato e i fumi della cucina, il freddo e l’incenso dell’abbazia. Insieme ai rumori e la musica. «Anche se gli attori in realtà si muovono in un corridoio nero in continuo alternarsi tra il dentro e il fuori». Non funziona forse così anche i corpi pensanti?.