La Cina in metamorfosi
Apre domani l’antologica di Zhang Dali, l’artista cinese che ha vissuto a Bologna dopo Tienanmen: le 220 opere mostrano le inquietudini di un popolo
Èstato il primo graffitista della scena cinese ma la street-art l’aveva scoperta a Bologna, la città di sua moglie Patrizia, dove Zhang Dali si era rifugiato dopo i fatti di piazza Tienanmen. A Bologna l’artista nato nel 1963, «figlio della classe operaia», era rimasto dal 1989 al 1995 prima di tornare a Pechino. «Il tempo passato a Bologna — dice — ha ampliato le mie capacità, quegli anni mi hanno messo a stretto contatto con l’arte contemporanea internazionale».
I graffiti realizzati allora, come quelli sui pannelli in legno del Portico dei Servi all’epoca in ristrutturazione, oggi non ci sono più, ma le sue opere si potranno ora vedere nella prima antologica italiana. «Meta-morphosis» si inaugura domani, dalle 10, a Palazzo Fava, in via Manzoni 2, ingresso a 10 euro. Con 220 opere tra sculture, dipinti, fotografie e installazioni suddivise in 9 sezioni, a coprire un trentennio di attività. Un itinerario accompagnato da iniziative come il docufilm Senza frontiere di Zheng Hao, che ne aveva già realizzato uno sugli anni bolognesi dell’artista, sabato alle 18 al Lumière. Promosso da Fondazione Carisbo e Genus Bononiae, il cui presidente, Fabio Roversi-Monaco, rimarca il ruolo di Bologna come capitale italiana di quella street-art «destinata a essere trasferita nei musei, perché nemmeno gli artisti potranno sottrarsi a questo percorso».
Nel frattempo Zhang Dali, che in Cina ha posto il tema della public-art, la street-art l’ha abbandonata da tempo. «Ora — prosegue — che in Cina è diventata una moda, dopo un ampio dibattito sul fatto se fosse vera arte o immondizia importata dall’Occidente, per me non ha più senso. Oggi lo stesso governo organizza gruppi di giovani
” A Bologna ho ampliato le mie capacità, sono stato un graffitista, ma ormai la street art in Cina è diventata una moda Dopo ampio dibattito sul fatto se fosse vera arte o immondizia importata dall’Occidente, per me non ha più senso. Con la mia firma segnalo la cultura sovietica del collettivismo che negava l’individuo, imposta in Cina nel secolo scorso
artisti per dipingere i muri di intere strade». Anche se, aggiunge, i graffitisti cinesi «devono stare attenti più a contenuti che non incorrano nella censura che non ai luoghi da utilizzare, come può accadere invece a città antiche come Bologna». E pensare che nel 1995, di ritorno da Bologna, Zhang Dali percorreva di notte le strade della capitale in bicicletta con le bombolette spray che si usavano nelle carrozzerie. I segni dei suoi interventi si ritrovano nella sezione «Dialogue and Demolition», con immagini fotografiche di muri condannati alla demolizione per lasciare spazio a nuovi palazzoni. Lì l’artista lasciava i suoi marchi di fabbrica, il profilo di una testa, disegnato o ritagliato in pareti pericolanti, e le firme AK-47 e 18K, simboli del kalashnikov e dell’oro a 18 carati.
La prima sigla è alla base dei tanti ritratti in acrilico su tela di vinile. «Per me — sottolinea l’artista — rappresenta la violenza della trasformazione che si ripercuote sulle vite e sui volti delle persone. La sigla di un fucile a segnalare quella cultura sovietica del collettivismo che negava l’individuo, imposta in Cina nel secolo scorso».
Per Zhang Dali gli artisti debbano mostrare la realtà del cambiamento, «anche se siamo figli di questo pianeta e dobbiamo vivere tutti insieme». Una considerazione che si ritrova nei calchi di teste di persone stritolate dalla modernizzazione di One Hundred Chinese, o nelle sculture in marmo bianco, lavoratori migranti, di Permanence. Sino a Chinese Offspring, sculture che riproducono corpi di contadini arrivati nelle città in cerca di lavoro e appese a testa in giù perché senza più controllo sulla propria vita.
«Zhang Dali — osserva la curatrice, la sinologa Marina Timoteo, direttore dell’Istituto Confucio di Bologna — rende le trasformazioni materia viva, senza però fermarle e aiutandoci a capirle meglio». La mostra comprende anche dipinti giovanili a olio su carta di riso, una serie di cianotipi e un complesso lavoro durato sette anni.
In A Second History l’artista ha messo a confronto foto ufficiali, pubblicate su giornali tra il 1950 e il 1980, con le immagini originarie rinvenute negli archivi. A riprova del fatto che ritocchi e manipolazioni non sono certo nate con Photoshop.